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                         ANNALE II 
                          La politica del Partito 
                          comunista italiano nel periodo costituente.  
                          I verbali della direzione tra il V e il VI Congresso 
                          1946-1948 
                          a cura di Renzo Martinelli e Maria Luisa Righi 
                          Roma, Editori Riuniti, 
                          1992 
                           
                          p. 659, L. 90.000 
                          ISBN 978-88-359-3659-4   | 
                     
                     
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                      Introduzione 
                         
                        di Renzo Martinelli –> 
                        La documentazione che pubblichiamo nel presente volume 
                        – tratta dall’archivio del Pci depositato 
                        presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma – 
                        rappresenta una delle fonti di maggiore importanza per 
                        la storia del Partito comunista italiano nel periodo costituente. 
                        Si tratta dei verbali – qui riprodotti in forma 
                        integrale, e ovviamente nel loro ordine cronologico – 
                        di tutte le riunioni della direzione comunista tenute 
                        tra il V (29 dicembre 1945-5 gennaio 1946) e il VI (5-10 
                        gennaio 1948) Congresso nazionale, che costituiscono, 
                        come è evidente, un osservatorio indispensabile 
                        per comprendere appieno l’azione effettiva di un 
                        «soggetto» che ha svolto, negli anni in cui 
                        la conquista della repubblica e l’elaborazione della 
                        Costituzione segnano la nascita dell’Italia democratica, 
                        un ruolo determinante. Questo materiale, per il suo intrinseco 
                        significato politico, come per la sua natura riservata 
                        (la consultazione di documenti di questo tipo è 
                        a tutt’oggi limitata ai due maggiori partiti: mentre 
                        l’archivio del Pci è già da qualche 
                        anno a disposizione degli studiosi, quello della Dc è 
                        stato aperto appena qualche mese fa, nel febbraio 1992) 
                        presenta un interesse del tutto particolare, che trova 
                        un’immediata conferma anche ad una lettura superficiale 
                        mentre un esame più approfondito consentirà 
                        di ricostruire con precisione i termini del dibattito 
                        interno, connettendoli da un lato alle questioni fondamentali 
                        del periodo, dall’altro – sullo sfondo del 
                        «partito nuovo» – alla formazione e 
                        alle caratteristiche del gruppo dirigente. 
                        La direzione è, nel Pci – in un partito che 
                        è sempre stato, per vocazione e per tradizione, 
                        centralizzato e «verticista» – un organo 
                        di rilevante importanza, nel quale si discutono e si decidono 
                        (spesso in termini assai poco diplomatici) i problemi 
                        politici di fondo e, nello stesso tempo, le questioni 
                        concrete di maggior peso relative all’attività 
                        del partito. Se infatti è al Comitato centrale 
                        che spetta statutariamente la funzione dirigente, è 
                        in realtà la direzione ad assumere di fatto questo 
                        compito, per il fenomeno – nel quale si manifesta 
                        con chiarezza il peso delle tendenze oligarchiche negli 
                        organismi collettivi – dell’accentramento 
                        del potere nella sede più ristretta (favorita in 
                        ciò, indubbiamente, anche dalla sua maggiore snellezza 
                        e operatività). 
                        Secondo lo statuto, la direzione – alla quale veniva 
                        affidata la guida di tutta l’attività del 
                        partito – era eletta dal Comitato centrale, che 
                        stabiliva anche «il numero dei membri effettivi 
                        e supplenti» a sua volta, essa designava la segreteria, 
                        la commissione di organizzazione, i responsabili delle 
                        commissioni di lavoro, e infine i direttori dei quotidiani 
                        «che hanno funzione di organo centrale del partito»: 
                        un’altra prerogativa, di grande importanza, era 
                        quella di convocare – ciò che doveva avvenire 
                        di regola ogni tre mesi – lo stesso organo da cui 
                        derivava la sua investitura, cioè il Cc.  È 
                        proprio quest’ultima attribuzione a fondare oggettivamente 
                        un primato dell’organo più ristretto rispetto 
                        a quello più ampio, che pure, a norma di statuto, 
                        aveva il compito di dirigere il partito nel periodo di 
                        tempo compreso tra due congressi infatti, l’orientamento 
                        politico generale sul quale il Cc avrebbe discusso, era 
                        preliminarmente concordato in direzione, e così 
                        un insieme di altri problemi concreti, attinenti agli 
                        spostamenti dei quadri, alle iniziative pubbliche, alla 
                        gestione della stampa, ecc. Riunendosi, in questo periodo, 
                        piuttosto frequentemente, la direzione esercitava inoltre 
                        un controllo abbastanza stretto sull’attività 
                        generale del partito, lasciando alla segreteria – 
                        un organismo che assumerà in seguito, tuttavia, 
                        un peso sempre maggiore – dei compiti essenzialmente 
                        organizzativi: la sua funzione poteva quindi essere considerata 
                        davvero centrale, come una sorta di «motore» 
                        del partito. 
                        Le analisi e le previsioni dibattute al suo interno, l’interpretazione 
                        degli avvenimenti italiani e internazionali, la «lettura» 
                        della situazione economico-sociale e le opzioni che ne 
                        derivano, sono quindi – proprio per il ruolo dominante, 
                        di effettiva responsabilità, che svolgeva la direzione 
                        comunista – gli elementi di maggiore interesse che 
                        possiamo trarre da questi verbali: cosi, attraverso la 
                        conoscenza approfondita dei modo stesso in cui, nella 
                        discussione, i suoi membri pervenivano ad elaborare un’azione 
                        determinata partendo da idee, opinioni, valutazioni particolari, 
                        possiamo analizzare l’effettiva politica del Pci, 
                        cogliendo il processo più intimo delle decisioni, 
                        l’aspetto anche personale delle scelte dirette ad 
                        intervenire sulla realtà. 
                        Ed è attraverso questa possibilità di seguire 
                        «in presa diretta», senza troppe mediazioni 
                        o diaframmi, lo sviluppo di questa analisi collettiva, 
                        che possiamo farci un concetto più preciso anche 
                        dell’ideologia, più o meno consapevole, del 
                        vertice comunista, che si manifesta assai chiaramente 
                        quando vengono affrontati i problemi politici di fondo; 
                        ma che si rivela, talvolta, anche nelle scelte apparentemente 
                        più trascurabili (come l’impostazione di 
                        determinate campagne di stampa, le argomentazioni relative 
                        a temi particolari, lo stesso linguaggio usato nel corso 
                        di determinate discussioni, ecc.). 
                        Prima di schizzare rapidamente le caratteristiche più 
                        precise del dibattito interno, è opportuno ricordare 
                        la composizione della prima direzione del Pci regolarmente 
                        eletta dopo la Liberazione – che è appunto 
                        quella designata dal Comitato centrale nella sua prima 
                        riunione, immediatamente successiva alla fine dei lavori 
                        del V Congresso. Ne fanno parte 16 membri effettivi (Amendola, 
                        Colombi, Di Vittorio, Li Causi, Longo, Massola, Negarville, 
                        Novella, Pajetta, Roveda, Scoccimarro, Secchia, Sereni, 
                        Roasio, Spano, Togliatti) e 6 membri candidati (D’Onofrio, 
                        Grieco, Rita Montagnana, Teresa Noce, Giuliano Pajetta, 
                        Terracini) un organismo in definitiva assai ristretto, 
                        se si pensa che il Pci contava allora già due milioni 
                        circa di iscritti. 
                        Tutti i membri della direzione, ad eccezione di Emilio 
                        Sereni (che è quindi, in questo senso, l’unico 
                        «homo novus»), facevano comunque già 
                        parte di quella precedente, che aveva preparato il V Congresso, 
                        e rispetto alla quale non vi sono quindi – in relazione 
                        alle caratteristiche sociali e alla formazione intellettuale 
                        e politica dei vari membri – mutamenti di rilievo. 
                        La direzione comunista si conferma infatti come un organismo 
                        quasi esclusivamente maschile (solo due donne sono presenti, 
                        e per di più tra i membri candidati), formato da 
                        dirigenti sperimentati e capaci, che sono tutti «rivoluzionari 
                        di professione»: è questo il dato che unifica 
                        uomini di diversa estrazione sociale, provenienti dal 
                        mondo del lavoro, come Secchia o Roasio, o di origine 
                        intellettuale, come Togliatti o Sereni, ma attivi nel 
                        partito già da molto tempo; maturati politicamente, 
                        cioè, prima del crollo del fascismo e della Resistenza.  
                        È questo un dato che sottolinea fortemente l’elemento 
                        della continuità, ben rappresentato del resto dalle 
                        stesse figure dei massimi dirigenti – Togliatti 
                        (segretario generale), e Longo (vicesegretario generale) 
                        – nelle quali si riflettono le esperienze politiche 
                        formative di un’intera generazione di comunisti 
                        venuti all’impegno politico sotto le bandiere del 
                        marxismo e della Terza Internazionale: dalla lotta antifascista 
                        in Italia, con il suo corredo di anni di galera e di esilio, 
                        alla scuola leninista di Mosca, alle battaglie in Spagna 
                        e nella guerra di Liberazione. Tale continuità 
                        significa anche un notevole grado di omogeneità: 
                        sulla base della loro formazione e della loro esperienza, 
                        i membri della direzione del Pci sono in grado di «leggere» 
                        ciò che accade nel mondo e in Italia secondo schemi 
                        e criteri generali comuni, rapportando i fenomeni sociali 
                        e politici alla struttura di classe e alla storia concreta 
                        del paese – una storia recente vissuta direttamente 
                        e «personalmente», che costituisce lo sfondo 
                        permanente dell’analisi e della discussione interna. 
                        In questo senso, lo «storicismo» dei dirigenti 
                        comunisti, di cui si è spesso parlato in termini 
                        piuttosto generici, non è solo un astratto elemento 
                        della loro formazione culturale, più o meno rilevante 
                        nelle diverse personalità – e certamente 
                        assai spiccato in Togliatti – ma rappresenta anche, 
                        in qualche misura, un portato dei fatti, un esito delle 
                        prove attraversate collettivamente. Da questo punto di 
                        vista, l’antitesi fascismo/antifascismo è 
                        indubbiamente la base storico-politica fondamentale, il 
                        referente più stabile e costante di tutta l’elaborazione 
                        del Pci nel periodo costituente, ciò che occorre 
                        tenere ben presente per comprendere i criteri politici 
                        di fondo e l’ottica stessa del dibattito interno.  
                        È evidente che, per analizzare il significato della 
                        documentazione costituita da questi verbali, occorre considerare 
                        la situazione storica nella quale si inserisce e da cui 
                        acquista valore, senza perdere di vista il condizionamento 
                        oggettivo costituito dalla struttura stessa del «partito 
                        nuovo»: una «macchina organizzativa» 
                        già assai sviluppata al momento del V Congresso, 
                        e che non cesserà di rafforzarsi e di complicarsi 
                        nei due anni successivi. 
                        Come il lettore vedrà, i temi affrontati nelle 
                        riunioni della direzione si connettono ai più significativi 
                        avvenimenti di quegli anni, tanto da fornire quasi una 
                        sorta di «sommario» dei nodi più rilevanti 
                        della vita politica italiana: per un approfondito inquadramento 
                        storico rimandiamo perciò ai testi più noti 
                        sul periodo (tra i quali manca, tuttavia, uno studio complessivo 
                        sul Pci).  È invece opportuno richiamare, almeno 
                        sommariamente, gli esiti politici del V Congresso, dal 
                        momento che la direzione del Pci ricava da questa assise 
                        nazionale – la prima dopo il 1931, quando i comunisti 
                        si erano riuniti clandestinamente a Colonia – non 
                        solo la sua legittimità, ma soprattutto la linea 
                        strategica fondamentale da seguire. 
                        Il congresso si era svolto a Roma a cavallo tra il 1945 
                        e il 1946, poco dopo il varo del primo governo De Gasperi, 
                        a cui il Pci partecipava con la responsabilità 
                        di tre ministeri: la Giustizia (Togliatti), l’Agricoltura 
                        (Gullo), e le Finanze (Scoccimarro). 
                        La prospettiva su cui puntavano esplicitamente i dirigenti 
                        comunisti era quella di una duratura collaborazione con 
                        la Dc e con il Psi, cioè quella di una stabilizzazione 
                        della formula dell’unità antifascista: l’obiettivo 
                        di rimanere al governo del paese (così da avviare 
                        concretamente una politica di rinnovamento economico-sociale 
                        basata sulle cosiddette «riforme di struttura») 
                        anche dopo le elezioni della Costituente e la scelta istituzionale 
                        – due scadenze imminenti, dalle quali si riteneva 
                        potesse scaturire, oltre alla conquista di una democrazia 
                        avanzata, anche un ulteriore rafforzamento del partito 
                        – pare va, se non scontato, del tutto realistico. 
                        Una simile prospettiva richiedeva evidentemente un clima 
                        internazionale favorevole, nel quale rimanesse fermo, 
                        come elemento fondamentale, l’accordo tra le tre 
                        grandi potenze: sarà inutile ricordare, a questo 
                        proposito, che al momento del V Congresso la guerra fredda 
                        non era ancora un fenomeno dominante, né la divisione 
                        dell’Europa in blocchi contrapposti sembrava ineluttabile, 
                        anche se i segni premonitori erano già abbastanza 
                        visibili. 
                        In questo quadro, il rapporto di Togliatti al congresso 
                        si caratterizzò come la più efficace e completa 
                        esposizione della strategia di un partito che aveva già 
                        affermato la propria funzione nazionale, e che appariva 
                        legittimamente fiducioso nella possibilità di continuare 
                        a giocare in futuro, grazie alla sua forza e alla sua 
                        capacità politica, un ruolo importante nel governo 
                        del paese. Nel rapporto era lucidamente articolata la 
                        linea tesa a stimolare un progresso democratico continuo 
                        – la lotta, appunto, per una «democrazia progressiva» 
                        – alla quale i comunisti affidavano le loro speranze 
                        di imprimere al paese un graduale sviluppo «verso 
                        il socialismo». Due fattori erano ritenuti essenziali 
                        a questo disegno: il mantenimento della collaborazione 
                        con la Dc, e la realizzazione di una stretta unità 
                        politica – anzi, di una unità organica, cioè 
                        di una fusione – tra i socialisti e i comunisti. 
                        Questa fusione tra il Pci e il Psi, con la conseguente 
                        formazione di un nuovo grande partito della sinistra, 
                        appariva tuttavia, già al momento del congresso, 
                        assai poco realistica; e infatti, nella relazione dedicata 
                        da Longo a questo tema, si ripiegava di fatto sulla proposta 
                        transitoria di una federazione tra i due partiti. La prospettiva 
                        dell’unità organica veniva comunque mantenuta 
                        nel suo valore strategico, nonostante le reticenze e le 
                        difficoltà che cominciavano ad essere espresse 
                        da parte socialista Infatti, i termini essenziali del 
                        sistema politico italiano – già evidenti 
                        ancora prima della Costituente nell’emergere, sullo 
                        sfondo di un’articolata pluralità di formazioni 
                        minori, dei tre grandi partiti di massa – indicavano 
                        realisticamente ai comunisti la necessità di una 
                        politica di alleanze capace di realizzarsi nello stesso 
                        tempo, in forme e modi diversi, su questi due terreni: 
                        quello del travagliato rapporto, da sempre problematico, 
                        coi socialisti, e quello, nuovo, di una collaborazione 
                        coi cattolici. 
                        Proprio su questo piano, tuttavia, il Pci dovrà 
                        registrare una decisiva sconfitta: escluso dal governo 
                        del paese nella primavera del 1947 insieme con i socialisti 
                        – con i quali, mentre la prospettiva della fusione 
                        sfuma definitivamente, viene comunque rinnovato il patto 
                        d’unità d’azione – si troverà 
                        a capeggiare una dura lotta di opposizione che, al momento 
                        del VI Congresso (gennaio 1948), sarà nondimeno 
                        considerata – pur in un clima nazionale e internazionale 
                        assai negativo – come la leva e la garanzia di un’imminente 
                        vittoria elettorale. 
                        In definitiva, il bilancio di questi due anni cruciali 
                        non certo positivo, per i membri della direzione comunista, 
                        almeno sul piano propriamente politico; mentre per quanto 
                        riguarda il rinnovamento istituzionale, e la crescita 
                        del «partito nuovo», si può invece 
                        parlare di un rilevante successo. Questa contraddizione 
                        tra lo sviluppo quantitativo del Pci e la sua mancata 
                        affermazione come forza di governo, tra il ruolo storico 
                        determinante assolto nel periodo costituente e la debolezza 
                        evidente sul piano politico, un dato assai significativo, 
                        che riflette con efficacia – sullo sfondo di una 
                        situazione in rapido mutamento – la stessa natura 
                        variegata e complessa del partito. 
                        Il V Congresso aveva lanciato con forza la campagna per 
                        la repubblica e la Costituente, proponendo contemporaneamente 
                        un insieme di riforme strutturali che avrebbero dovuto 
                        ricostruire l’economia italiana in termini di sviluppo 
                        e di equità sociale: ma era l’obiettivo del 
                        rinnovamento istituzionale, con ogni evidenza, ciò 
                        che stava più a cuore ai comunisti, resi consapevoli, 
                        attraverso l’esperienza del fascismo, del valore 
                        della democrazia. Nella risoluzione approvata al termine 
                        dei lavori, questa impostazione – già esplicita 
                        nella relazione introduttiva di Togliatti – espressa 
                        in termini sintetici, con una chiara esposizione della 
                        linea politica alla cui realizzazione dovranno lavorare 
                        gli organismi dirigenti. 
                        Il primo obiettivo dunque quello di ottenere finalmente 
                        la Costituente e la repubblica; non vi dovrà essere 
                        più alcun rinvio di un’assemblea che il partito 
                        «considera [...] come l’inizio di un rinnovamento 
                        profondo e radicale di tutta la vita del paese. Con essa 
                        dovrà prendere nuovo slancio l’azione diretta 
                        a restituire all’Italia la piena indipendenza nazionale, 
                        la unità politica e morale, la libertà democratica, 
                        il benessere per le masse lavoratrici e il posto che le 
                        spetta tra i popoli liberi dell’Europa e del mondo» 
                        Alla Costituente viene così attribuita una funzione 
                        decisiva; ciò anche in relazione al pericolo di 
                        un risorgere del fascismo, più probabile e minaccioso 
                        in una situazione ancora fluida, e che poteva trovare 
                        alimento nelle tensioni politiche e sociali diffuse in 
                        tutto il paese. A questo pericolo contribuivano sia la 
                        riorganizzazione di strutture e formazioni neofasciste, 
                        sia la spinta estremistica di determinati strati del Pci, 
                        a cui risaliva non di rado la responsabilità di 
                        tumulti ed episodi sanguinosi – «regolamenti 
                        di conti», vendette personali, giudizi sommari – 
                        particolarmente frequenti in Emilia-Romagna (una regione, 
                        com’è noto, in cui la Resistenza aveva assunto 
                        più distintamente i caratteri di un duro scontro 
                        di classe). 
                        A questo proposito, pensiamo non ci sia più bisogno, 
                        ormai, di argomentare l’inconsistenza di una «doppiezza» 
                        del Pci, volto, secondo vecchi stilemi polemici, a preparare 
                        l’insurrezione fingendosi nel contempo democratico: 
                        si tratta di un’argomentazione propagandistica che 
                        non trova un effettivo riscontro nei fatti e che riceve 
                        la più chiara smentita proprio dai verbali della 
                        direzione. Come il lettore potrà notare agevolmente, 
                        il timore di un precipitare della situazione, con la conseguente 
                        necessità di tenere a freno le frange estremiste, 
                        evitando, nello stesso tempo, un rafforzamento del fronte 
                        moderato e conservatore – e le due cose apparivano 
                        strettamente collegate – si presenta infatti come 
                        una costante in tutta la discussione interna, illuminando 
                        con chiarezza il peso rilevante esercitato sulla concreta 
                        strategia comunista dalle esperienze del passato. 
                        Non possibile, infatti, comprendere la politica del Pci 
                        in questo periodo senza valutare appieno quanto abbia 
                        inciso, sullo stesso modo di ragionare dei suoi dirigenti, 
                        la riflessione sul cosiddetto «diciannovismo»: 
                        da questa esperienza deriva infatti la preoccupazione 
                        che si possa ripetere una situazione analoga ogni volta 
                        che i contrasti sociali e politici raggiungono una soglia 
                        eccessiva, rischiando di sconfinare sul terreno della 
                        provocazione e della violenza. Per questo, una delle costanti 
                        più evidenti nello sforzo pedagogico messo in opera 
                        dal gruppo dirigente per «acculturare» un 
                        partito di due milioni di iscritti (composto, nella sua 
                        grande maggioranza, da lavoratori manuali) si può 
                        individuare appunto nel superamento dell’estremismo, 
                        e nella diffusione di un costume democratico capace di 
                        soppiantare le impostazioni settarie o ideologicamente 
                        dogmatiche. È uno sforzo complesso e non facile, 
                        che trova un riscontro preciso anche nel nuovo statuto, 
                        nel quale l’iscrizione al partito è consentita 
                        sulla base dell’accettazione del programma politico, 
                        «indipendente mente dalla razza, dalla fede religiosa, 
                        e dalle convinzioni filosofiche» 
                        Ma se il Pci aveva indubbiamente compiuto una chiara scelta 
                        a favore della democrazia – e si preoccupava di 
                        evitare che fosse messa in pericolo con errori già 
                        scontati a caro prezzo in passato – aveva certamente 
                        anche qualche ragione per diffidare dei suoi avversari: 
                        ottenere la Costituente e la repubblica appariva di conseguenza 
                        un obiettivo continuamente insidiato, continuamente in 
                        pericolo; e a maggior ragione, quindi, appariva come un 
                        fattore profondo di stabilizzazione democratica, una conquista 
                        necessaria per la stessa salvaguardia dell’esistenza 
                        del partito e per il più agevole sviluppo, secondo 
                        anche una vecchia indicazione di Engels, della lotta della 
                        classe operaia. 
                        I comunisti, d’altra parte, erano ben consapevoli 
                        che il conseguimento dei loro obiettivi fondamentali in 
                        quella fase richiedeva una situazione internazionale favorevole, 
                        e fin da questo momento – non avendo grandi possibilità 
                        di influire su questo piano – il gruppo dirigente 
                        si sforza di «esorcizzare», con ripetute dichiarazioni, 
                        la temuta prospettiva di un inasprimento dei rapporti 
                        tra le grandi potenze, e di una conseguente divisione 
                        dell’Europa in blocchi contrapposti: «Il partito 
                        comunista – si legge nel documento già citato 
                        – è contrario a una politica di “blocchi” 
                        di potenze, perché tale politica non potrebbe mettere 
                        capo ad altro che all’asservimento diretto o indiretto 
                        del nostro paese. Esso desidera che nel campo economico 
                        la collaborazione e gli aiuti indispensabili, e le garanzie 
                        che debbono accompagnare questo aiuto, si realizzino in 
                        modo che non diminuisca l’indipendenza nazionale 
                        e consenta la difesa degli interessi dei diritti della 
                        nostra emigrazione». L’Italia deve attuare 
                        una politica di pace, cercando «la sua salvezza 
                        nella unità di queste grandi potenze» e respingendo 
                        l’ostilità e gli intrighi contro l’Urss, 
                        nelle cui popolazioni «gli operai e la parte più 
                        avanzata dei lavoratori italiani vedono i portatori nel 
                        mondo di una nuova civiltà. 
                        Questa impostazione di politica estera – che postula 
                        conseguentemente, per risolvere il problema di Trieste, 
                        trattative dirette tra Italia e Jugoslavia – si 
                        scontrerà assai presto con le prime, concrete manifestazioni 
                        della «guerra fredda». Queste ridurranno gradualmente 
                        le possibilità di manovra dei comunisti: così, 
                        anche il programma di riforme delineato al congresso rimarrà 
                        in sostanza lettera morta. Nella risoluzione approvata 
                        sono, a questo proposito, esposti degli obiettivi assai 
                        avanzati, che comprendono in primo luogo, accanto alla 
                        riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato, 
                        la riforma industriale e agraria, con la nazionalizzazione 
                        «dei grandi complessi monopolisti, delle grandi 
                        banche e delle compagnie di assicurazione, un inizio di 
                        pianificazione nazionale e l’istituzione di un sistema 
                        di controllo nazionale della produzione, il cui primo 
                        passo sarà la estensione generale e il riconoscimento 
                        dei consigli di gestione» Nel campo agricolo, sono 
                        proposte la liquidazione del latifondo, la riforma dei 
                        patti agrari, la difesa della piccola e media proprietà. 
                        Si tratta di proposte generali, che indicano uno stato 
                        d’animo e una posizione che si possono indubbiamente 
                        definire «di attacco»: pur consapevoli delle 
                        difficoltà, i comunisti escono dal loro V Congresso 
                        – anche per il peso e l’impressione suscitati 
                        dall’imponente crescita numerica del «partito 
                        nuovo» – con un margine evidente di sopravvalutazione 
                        delle possibilità oggettivamente consentite dalla 
                        situazione. In effetti, se si confronta la linea programmatica 
                        tracciata dal documento preso in esame con i risultati 
                        conseguiti praticamente nei due anni successivi, si ha 
                        il senso preciso della sconfitta che il «partito 
                        nuovo» ha dovuto registrare sul piano politico e 
                        su quello economico-sociale. A questa fanno da contrappeso 
                        la formazione di un grande partito di massa e il rinnovamento 
                        istituzionale, configurando nell’insieme, come abbiamo 
                        rilevato più sopra, una sorta di paradosso, che 
                        è all’origine della irripetibile singolarità 
                        di una vicenda storica – quella del Pci – 
                        ormai conclusa.  
                        I temi affrontati nelle discussioni della direzione ripercorrono 
                        i nodi politici del biennio 1946-47: così, dal 
                        risultato delle elezioni amministrative, al referendum 
                        istituzionale, all’esclusione dal governo delle 
                        sinistre, alla lotta contro il governo De Gasperi nella 
                        seconda metà del 1947, si delinea concretamente 
                        il senso profondo della strategia comunista, la «lettura» 
                        che della situazione italiana viene data dai dirigenti 
                        del Pci. Accanto a questi argomenti, non si può 
                        non rilevare lo spazio dedicato, nel dibattito, ai problemi 
                        dello sviluppo stesso del «partito nuovo», 
                        e, correlativamente, al rapporto con l’Unione sovietica. 
                        Un esame che tenga d’occhio questi diversi piani 
                        – e soprattutto, evidentemente, le loro connessioni 
                        – è destinato a sgombrare il campo da molte 
                        superfetazioni polemiche e mitologiche e da molte incrostazioni 
                        strumentali, offrendo per la prima volta la possibilità 
                        di giudicare la vita del Pci non già sulla base 
                        di categorie discutibili – abbiamo già ricordato 
                        la famigerata «doppiezza» – ma in riferimento 
                        alla concreta realtà storica.  
                        I verbali che ci sono pervenuti riguardano poco meno di 
                        quaranta riunioni della direzione e sono, di norma, sufficientemente 
                        ampi e corretti: solo in qualche caso si tratta di sintesi 
                        o di stesure incomplete. Considerando che accanto alla 
                        direzione operava una segreteria per il lavoro quotidiano, 
                        e il Comitato centrale per il dibattito più ampio, 
                        non si tratta certo di un numero esiguo: la direzione 
                        si riunisce mediamente due volte al mese e affronta in 
                        genere pochi ma definiti punti all’ordine del giorno, 
                        dando vita spesso a una discussione che dura più 
                        giorni. In questa sede ci limiteremo, senza svolgere un 
                        esame analitico del materiale, a qualche osservazione 
                        sui dibattiti – concernenti la Costituente, la crisi 
                        di governo del maggio 1947, la fondazione del Cominform, 
                        la politica economica – che ci sono sembrati più 
                        significativi.  
                        La discussione che si svolge sulla questione istituzionale 
                        si intreccia cronologicamente con la preparazione, e poi 
                        con la concreta effettuazione, delle elezioni amministrative: 
                        le prime votazioni che si tengono in Italia dopo la caduta 
                        del fascismo, e le prime che – con la partecipazione 
                        delle donne – si svolgono a suffragio universale. 
                        Nello stesso tempo, il dibattito tra le forze politiche, 
                        è incentrato sulla scadenza e sui poteri dell’Assemblea 
                        costituente: in questo dibattito si inseriscono due questioni 
                        particolari, quella dell’obbligatorietà del 
                        voto e quella, sollevata dai liberali, di un referendum 
                        che sottragga la scelta istituzionale alla Costituente 
                        per rimetterla al giudizio popolare.  
                        I comunisti sono contrari ad ambedue queste proposte, 
                        ma la situazione è tale che – mentre ottengono 
                        di fatto l’abbandono della prima – non possono 
                        opporsi efficacemente alla seconda. Sul piano politico, 
                        due sono gli obiettivi del Pci, che si tengono a vicenda: 
                        prima di tutto la Costituente, il fine a cui non si può 
                        rinunciare a costo di compromessi anche pesanti; quindi 
                        la presenza nel governo del paese. La discussione interna 
                        mostra che il gruppo dirigente è pronto a concessioni 
                        rilevanti per ottenere questi due risultati, dando prova 
                        di flessibilità e moderazione costanti, ispirate 
                        nello stesso tempo dalla situazione reale – che 
                        non consentiva certo atteggiamenti troppo radicali – 
                        e, come abbiamo già notato, dalle esperienze del 
                        passato (la lezione, in particolare, dell’avvento 
                        del fascismo), profondamente interiorizzate e assimilate 
                        dal vertice del Pci.  
                        Il richiamo al periodo 1919-20, ricorrente in molti articoli 
                        e discorsi dei dirigenti comunisti, non ha infatti un 
                        valore rituale o propagandistico, ma risponde ad effettive 
                        preoccupazioni, mostrando con evidenza quella forma di 
                        sommaria analogia storica a cui, sembra, gli uomini politici 
                        non sanno rinunciare. D’altronde, per quanto riguarda 
                        la Costituente, la vittoria della repubblica al referendum 
                        (ottenuta con un margine assai ristretto di voti favorevoli) 
                        fu preceduta, com’è noto, da manovre e tentativi 
                        che inducono a ritenere la prudenza e i timori dei comunisti 
                        effettivamente fondati. Togliatti non aveva mai dato per 
                        scontato l’obiettivo della Costituente, e aveva 
                        insistito in varie occasioni sulle difficoltà da 
                        superare, denunciando il sabotaggio, la resistenza passiva, 
                        le esplicite riserve degli ambienti più conservatori. 
                         
                        Questi timori – relativi soprattutto al pericolo 
                        di un colpo di Stato monarchico, che appare, immediatamente 
                        prima e immediatamente dopo lo svolgimento del referendum, 
                        come una minaccia reale – sono alla base di una 
                        accentuata preoccupazione difensiva, assai comprensibile 
                        in un partito che aveva vissuto recentemente anni di persecuzioni 
                        e di vita clandestina. Come si può notare, i verbali 
                        della direzione testimoniano questa preoccupazione esclusivamente 
                        difensiva – che certamente, alla base, poteva venire 
                        interpretata in modo diverso – prendendo in esame 
                        anche l’eventualità di una reazione alle 
                        minacce antidemocratiche. Ma indicano soprattutto – 
                        ciò che è molto più significativo 
                        – con quanta attenzione e prudenza i comunisti, 
                        e in particolare Togliatti, valutassero realisticamente 
                        la situazione, e fossero pronti, in sostanza, ad accontentarsi 
                        anche di un successo parziale.  
                        Nella riunione che si tiene alla metà di febbraio, 
                        affrontando lo specifico punto dei poteri della Costituente, 
                        e la proposta di Nenni di accettare il referendum preventivo 
                        sulla questione istituzionale al quale i comunisti si 
                        erano fino a quel momento dichiarati contrari – 
                        Togliatti afferma: «De Gasperi ci vuoi far ricattare 
                        sul tipo di repubblica perché egli pensa di dire: 
                        repubblica si, ma repubblica col crocifisso, col papa 
                        presidente». Longo, che interviene subito dopo, 
                        pone la questione di un eventuale colpo di Stato, ottenendo 
                        da Togliatti una risposta assai indicativa per comprendere 
                        l’analisi della situazione sviluppata dai comunisti. 
                        Per il vicesegretario del Pci «Su questa questione 
                        dovremmo avere un’idea esatta su quello che è 
                        l’atteggiamento degli Alleati perché in ultima 
                        analisi, sul terreno della forza sono essi che decideranno. 
                        Saranno decisi ad impedire una repubblica? Saranno decisi 
                        ad impedire un colpo di mano dei monarchici?». A 
                        questi interrogativi Togliatti risponde: «lo credo 
                        che su questo punto, sul terreno della forza, non possiamo 
                        essere molto sicuri perché la monarchia si organizza 
                        e, poi, sarà aiutata dagli Alleati stessi; poi 
                        ci sono i carabinieri ed anche una parte dell’esercito. 
                        Posta così la questione a me pare che a noi non 
                        convenga arrivare cosi, improvvisamente, non preparati 
                        organizzativamente dal punto di vista di lotta armata 
                        [...]. Io penso che non abbiamo nessun interesse a provocare 
                        un colpo di forza; a noi converrebbe che alle elezioni 
                        non ci sia alcuna provocazione per il colpo di Stato monarchico». 
                        In base a queste considerazioni, il capo del Pci si mostra 
                        disponibile anche ad accettare che il referendum si svolga 
                        dopo le elezioni per la Costituente, affermando: «dovremmo 
                        pagare nel senso che la repubblica non viene fatta il 
                        giorno delle elezioni ma dopo 7-8 mesi e sarà una 
                        repubblica di tipo diverso, col crocifisso ed il papa, 
                        ma sarebbe tuttavia un passo avanti anche se piccolo». 
                         
                        Una posizione che mostra chiaramente quanto fosse considerato 
                        importante – al di là delle caratteristiche 
                        che avrebbe potuto assumere concretamente – l’obiettivo 
                        del rinnovamento istituzionale.  
                        Sulla questione del colpo di Stato, comunque, non tutti 
                        si dimostrano cauti come Togliatti; Di Vittorio, ad esempio, 
                        afferma: «Quanto al colpo di Stato stesso, la sua 
                        possibilità deve essere esaminata seriamente [...]; 
                        noi abbiamo una qualche esperienza e possediamo dei quadri 
                        che ci possono permettere di far fronte al colpo di Stato. 
                        [...] non bisogna considerare l’eventualità 
                        di un colpo di Stato come una cosa contro la quale non 
                        abbiamo nulla da fare e da dire. Io penso che il partito 
                        debba rivedere questa eventualità e prendere le 
                        misure necessarie, lavorando, naturalmente, per cercare 
                        di evitare una tale eventualità».  
                        La discussione su questo tema continua con pareri diversi 
                        e anche contrapposti: mentre Togliatti e Longo sono assai 
                        preoccupati, in questo momento, per l’ipotesi del 
                        referendum preventivo, altri, come Li Causi, ritengono 
                        invece che potrebbe essere un vantaggio la contemporaneità 
                        del referendum e delle elezioni. Il problema sarà 
                        risolto pochi giorni dopo, nella riunione della direzione 
                        del 25 febbraio, quando di fatto è stato già 
                        trovato un compromesso sul voto obbligatorio, e dopo che 
                        i socialisti si sono pronunciati a favore di un referendum 
                        da tenersi nello stesso giorno delle elezioni. La direzione 
                        comunista – anche per la possibilità che 
                        venga chiesto un referendum sui poteri della Costituente 
                        – decide di accettare questa proposta: in una brevissima 
                        riunione è quindi messa di nuovo in luce, con maggiore 
                        evidenza, l’importanza attribuita all’obiettivo 
                        fondamentale del partito: ottenere finalmente la Costituente. 
                        Si può anche cedere, per questo, sul tema del referendum, 
                        poiché la vittoria della repubblica è considerata 
                        sicura.  
                        Longo esprime nel modo più chiaro questo atteggiamento, 
                        sottolineando il pericolo di «spaventare» 
                        i ceti medi: «bisogna centrare l’attenzione 
                        sulla repubblica [...] sarebbe conveniente accettare un 
                        referendum preventivo sulla questione monarchia o repubblica. 
                        Nel caso che si dovesse svolgere anche un referendum sui 
                        poteri della Costituente dovranno presentarsi con una 
                        posizione che contenga i poteri in certi limiti che non 
                        spaventino determinate categorie».  
                        Il valore attribuito dai comunisti al mutamento istituzionale, 
                        che in questo medesimo periodo li spinge a una grande 
                        moderazione anche sul piano economico-sociale, attenuando 
                        notevolmente i tratti più immediati e combattivi 
                        della loro stessa identità politica, è forse 
                        anche all’origine del risultato, per certi aspetti 
                        singolare e inaspettato, del 2 giugno: la vittoria della 
                        repubblica, ma la sconfitta, in qualche misura, dei partiti 
                        più dichiaratamente e combattivamente repubblicani 
                        (comunisti e socialisti) rispetto alla Dc. L’impostazione 
                        stessa della campagna elettorale condotta dal Pci – 
                        un’impostazione già adottata, in effetti, 
                        per il primo turno dell’impostazione stessa della 
                        campagna elettorale condotta dal Pci – un’impostazione 
                        già adottata, in effetti, per il primo turno delle 
                        elezioni amministrative – privilegia infatti nettamente, 
                        piuttosto che insistere sui tradizionali temi sociali, 
                        la questione istituzionale.  
                        A questo proposito, si manifestano all’interno della 
                        direzione anche delle significative differenziazioni, 
                        tra chi appunto sottolinea il peso delle questioni economiche 
                        e della competizione con gli altri partiti (Roasio, Teresa 
                        Noce) e chi invece – primo fra tutti Togliatti – 
                        è pronto a grandi concessioni, pur di favorire 
                        tra i partiti democratici un atteggiamento unitario in 
                        favore della repubblica. La linea di composizione e di 
                        sintesi di queste differenziazioni – che rimangono 
                        tuttavia nell’ambito di una semplice varietà 
                        di opinioni, senza delineare veri e propri contrasti – 
                        è comunque assai più vicina alle posizioni 
                        di Togliatti, di Longo, di Secchia che non a quelle dei 
                        dirigenti, citati più sopra, indubbiamente di minor 
                        peso politico.  
                        Non esistono altri verbali espressamente dedicati alla 
                        Costituente, e nemmeno ai risultati del 2 giugno, che 
                        appaiono al partito piuttosto deludenti. Pur avendo infatti, 
                        conseguito l’obiettivo essenziale, cioè la 
                        repubblica, i rapporti di forza usciti dalle urne non 
                        possono non porre ai comunisti qualche problema, in rapporto 
                        alla loro presenza nel governo del paese. E in effetti, 
                        da questo momento fino all’espulsione delle sinistre 
                        dal governo nel maggio 1947, su questo tema vi sarà, 
                        nel gruppo dirigente comunista un teso dibattito, più 
                        o meno esplicito, che ha come sfondo una situazione in 
                        continuo movimento, caratterizzata da una prima incrinatura 
                        nei rapporti interni alla maggioranza già nell’estate 
                        del 1946 (superata con la sostituzione di Corbino al ministero 
                        delle Finanze), poi da due successive crisi di governo; 
                        la prima nel gennaio, la seconda, che porterà infine 
                        alla conclusione dell’unità antifascista, 
                        nel maggio 1947. A questo proposito i verbali recano un 
                        contributo di conoscenza non trascurabile, illuminando 
                        efficacemente i limiti dell’analisi e della percezione 
                        politica del gruppo dirigente.  
                        I comunisti avevano deciso, dopo il 2 giugno, di partecipare 
                        al governo (anche per ragioni «istituzionali»: 
                        basterà richiamare le scadenze del trattato di 
                        pace e della Costituzione), segnalando tuttavia un indubbio 
                        elemento di distacco; Togliatti, infatti, non aveva accettato 
                        cariche governative, per potersi dedicare con maggiore 
                        agio alla guida del partito. 
                        Quanto, tuttavia, questa presenza sia considerata in termini 
                        problematici emerge chiaramente nella riunione della direzione 
                        del 17 settembre; Longo, in questa occasione, afferma: 
                        «Possiamo avere una politica di collaborazione col 
                        governo anche rimanendo fuori. Noi partecipiamo al governo 
                        per far applicare la parte di programma del nostro partito 
                        accettato dal governo e per fare realizzare più 
                        che sia possibile di esso». Secchia replica, al 
                        contrario «che questo non è il momento di 
                        andare alla opposizione. In alcune regioni se noi fossimo 
                        all’opposizione il p.[artito] si troverebbe nella 
                        illegalità [...]. Nel p.[artito] vi è del 
                        “primitivismo”, si pensa che ogni obiettivo 
                        [...] dovrebbe realizzarsi non appena viene posto». 
                        È una posizione condivisa da molti altri, come 
                        Li Causi, il quale sostiene che il partito «deve 
                        continuare la sua linea di unità nazionale». 
                         
                        Queste divergenze di opinione, che si manifesteranno più 
                        esplicitamente nella sessione del Comitato centrale immediatamente 
                        successiva, mettono in luce – anche se l’impostazione 
                        di Togliatti, decisamente favorevole alla partecipazione 
                        al governo, prevale largamente – gli umori e le 
                        tendenze di strati non trascurabili del Pci, preoccupati 
                        di un logoramento del partito, e di una sua debolezza 
                        (che appare come il prezzo del rapporto con la Dc) nel 
                        realizzare il programma di governo. Avendo presenti tali 
                        difficoltà, Togliatti aveva lanciato appunto in 
                        questo periodo il cosiddetto «nuovo corso» 
                        nella politica economica, spingendo il partito a un’azione 
                        che sollecitasse «dal basso», attraverso ampi 
                        movimenti di lotta sociale, la concreta realizzazione 
                        di questo programma. Tuttavia, a prescindere dalle difficoltà 
                        che questa politica incontra nell’organizzazione 
                        del partito, è il rapido peggiorare della situazione 
                        politica che, sostanzialmente, non ne permette un’effettiva 
                        attuazione.  
                        Infatti, la questione del governo, risolta in questa occasione, 
                        si ripresenterà dopo pochi mesi, già all’inizio 
                        dell’anno seguente. Anche se l’espulsione 
                        delle sinistre dalla direzione politica del paese avverrà 
                        solo nel maggio, possiamo considerare la crisi del gennaio 
                        1947 come un primo tentativo in questo senso, operato 
                        da De Gasperi subito dopo il suo viaggio negli Stati Uniti, 
                        in un momento in cui, sul piano internazionale, siamo 
                        alla vigilia del lancio della «dottrina Truman» 
                        (marzo 1947).  
                        Che l’obiettivo del presidente del Consiglio sia 
                        già, nella prima crisi, quello di «sbarcare» 
                        i comunisti e i socialisti dal governo appare piuttosto 
                        evidente, e i comunisti lo rilevano più volte, 
                        a chiare lettere, su «l’Unità». 
                        Questo intento, tuttavia, viene per il momento frustrato, 
                        e la crisi si chiude con una ricostituzione del tripartito 
                        che appare al Pci, in termini di «scampato pericolo», 
                        come una notevole vittoria. Nella riunione della direzione 
                        del 4 febbraio Togliatti, concludendo una sommaria ricostruzione 
                        degli avvenimenti, nella quale egli valorizza appunto 
                        il successo comunista, affronta il tema delle prospettive 
                        politiche affermando: «De Gasperi ha manifestato 
                        l’intenzione di fare le elezioni a giugno. Ritiene 
                        questo governo come governo di emergenza. Si faranno le 
                        elezioni a giugno? Ne dubito. [ ... ] le elezioni si potranno 
                        fare a novembre.   «Durerà il governo 
                        fino allora? De Gasperi per farlo durare ha chiesto un 
                        impegno di solidarietà. Quest’impegno non 
                        è un gran che. La nostra libertà di critica 
                        resterà presso a poco quella di prima. È 
                        chiaro che ormai tutto quello che si fa viene fatto in 
                        vista dei comizi elettorali».  
                        Comincia a manifestarsi qui un errore di previsione, su 
                        cui occorre richiamare l’attenzione, che non è 
                        solo di Togliatti, ma è condiviso da tutto il gruppo 
                        dirigente. Le elezioni, infatti, subiranno una proroga 
                        dopo l’altra (la data definitiva sarà fissata 
                        solo nel febbraio 1948): l’intenzione di De Gasperi 
                        è verosimilmente quella di votare dopo aver sbarcato 
                        dal governo le sinistre, quando avrà in sostanza 
                        tutto il potere nelle sue mani. Tra l’altro, se 
                        si tiene presente, oltre a ciò che avviene in Italia, 
                        il graduale aggravarsi del clima internazionale, ci si 
                        rende conto di quanto questi continui rinvii abbiano contribuito 
                        al risultato del 18 aprile.  
                        Ma la discussione più significativa avviene nella 
                        riunione della direzione del 5-6 maggio, che precede immediatamente 
                        le dimissioni del governo De Gasperi (a questo punto, 
                        la crisi appare infatti scontata).  
                        La relazione, dedicata questa volta proprio all’esame 
                        della situazione politica, è svolta dallo stesso 
                        Togliatti, che riferisce tra l’altro circa il colloquio 
                        avuto nella mattinata con De Gasperi: questi gli ha parlato 
                        della gravità della situazione finanziaria, e della 
                        conseguente necessità «di una concentrazione 
                        politica che dia alle diverse categorie di consumatori 
                        e produttori italiani la fiducia necessaria per superare 
                        la contingenza».  
                        Togliatti, sulla base di questo colloquio, «ritiene 
                        di poter escludere che l’on. De Gasperi voglia programmaticamente 
                        allontanare il partito comunista dal governo, ma pensa 
                        che voglia tentare la formula dell’allargamento 
                        con i tecnici [...]. In definitiva si dichiara favorevole 
                        all’accettazione dell’inclusione di tecnici 
                        nel governo, ma sottolinea l’assoluta necessità 
                        che vengano, in pari tempo, assicurati alcuni punti fondamentali 
                        nel programma, tali che diano la certezza che il governo 
                        non seguirà la linea di una politica liberistica». 
                         
                        Qual è l’opinione dei membri della direzione 
                        comunista? La maggioranza concorda con la valutazione 
                        di Togliatti: solo alcuni intuiscono e affermano chiaramente 
                        che la manovra tende a «sbarcare» i comunisti 
                        dal governo. In effetti, l’esame della stampa comunista, 
                        durante tutto il tortuoso svolgimento della crisi, conferma 
                        questa mancata percezione, un’assenza di consapevolezza 
                        per certi aspetti sorprendente, che fa indubbiamente il 
                        gioco della Dc.  
                        Il gruppo dirigente del Pci sembra anzi ritenere possibile 
                        un governo che non sia presieduto da De Gasperi, e si 
                        espone in un aperto appoggio al tentativo di Nitti. Le 
                        dichiarazioni di Togliatti in questo periodo, soprattutto 
                        dopo i colloqui con De Gasperi, danno sempre l’idea 
                        di una soluzione vicina e accettabile per i comunisti: 
                        solo alla fine del mese, dopo il fallimento di Orlando, 
                        il tono de «l’Unità» cambia. 
                        Ma fino all’ultimo, il vertice comunista è 
                        propenso a credere in un esito accettabile, e persino 
                        a prendere in considerazione un voto di astensione a un 
                        governo democristiano monocolore.  
                        Nella riunione della direzione che precede immediatamente 
                        la presentazione del nuovo gabinetto alla Costituente, 
                        si stenta ancora, in effetti, a prendere pienamente coscienza 
                        della gravità di ciò che si è ormai 
                        compiuto. Togliatti tiene una breve relazione in tono 
                        difensivo, sostenendo che: «neppure in questa occasione 
                        [quando fu sollevato l’incidente con Sumner Welles] 
                        fu detto chiaramente, anche se tutta l’intonazione 
                        di De Gasperi poteva convincere del contrario, che egli 
                        intendeva escludere i comunisti dal governo». In 
                        questa stessa occasione Spano, appoggiato da Pajetta (ma 
                        controbattuto da tutti gli altri), propone che il gruppo 
                        comunista si astenga al momento della formazione del nuovo 
                        governo. Concludendo il dibattito – che mette in 
                        luce toni e atteggiamenti diversi, tra chi considera l’opposizione 
                        almeno un’occasione per rafforzare il partito (Colombi), 
                        chi addirittura sembra valutaria positivamente (Massola), 
                        chi arriva a postulare un governo ancora democristiano, 
                        ma senza De Gasperi (Negarville) – Togliatti mostra 
                        del resto di non essere ancora convinto che il nuovo ministero 
                        andrà in porto, e ritiene comunque necessario operare 
                        per un largo fronte parlamentare contro De Gasperi, per 
                        un ampio blocco politico che possa far pesare la sua esistenza: 
                        «Se il governo riuscisse ad avere la maggioranza, 
                        mettere subito avanti i motivi contro di esso, sulla necessità 
                        di un controllo sul governo durante le elezioni e su altri 
                        motivi di agitazione. Per il momento, quindi, avere la 
                        linea di votare contro, conquistando il maggior numero 
                        possibile di voti».  
                        Solo nelle settimane successive il Pci prenderà 
                        pienamente coscienza dell’entità della sconfitta 
                        subita, avviando – con un indubbio ritardo – 
                        un ripensamento dell’esperienza governativa e del 
                        suo esito deludente, al quale contribuiranno anche le 
                        pesanti critiche mosse ai comunisti italiani alla riunione 
                        costitutiva del Cominform, nel settembre 1947.  
                        Il dibattito che si svolge in direzione, tra il 7 e il 
                        10 ottobre 1947, sulla fondazione del Cominform e sull’operato 
                        della delegazione italiana è di rilevante importanza 
                        per una comprensione approfondita di tutta la successiva 
                        politica del Pci. Dopo la relazione tenuta da Longo, che 
                        prende atto della divisione del mondo in due blocchi e 
                        sostiene quindi la necessità di «modificare 
                        [...] la nostra linea politica», si apre una discussione 
                        che assume in qualche momento toni aspri e risentiti: 
                        il primo a prendere la parola è Terracini il quale 
                        solleva delle riserve sui poteri della delegazione italiana 
                        («Le questioni che sono state poste alla conferenza 
                        di Varsavia sono di una tale importanza che solo il Comitato 
                        centrale e forse anche il congresso hanno il potere di 
                        deciderle [...] i nostri compagni sono andati con una 
                        scadente e insufficiente informazione; né, del 
                        resto, essi erano stati precedentemente informati del 
                        tema e degli scopi della discussione») e infine 
                        afferma: «Si va dunque verso un acutizzarsi della 
                        situazione; ma se noi cambiassimo oggi, radicalmente, 
                        la nostra politica, perderemmo i contatti con gli altri 
                        ceti, anche se la classe operaia e i contadini potrebbero 
                        temporaneamente rafforzarsi. Qualche correzione si può 
                        sempre fare, ma non mi sembra che la nostra politica debba 
                        essere sottoposta a profonde modifiche». 
                        La posizione di Terracini – che aveva mosso dei 
                        rilievi anche alla politica estera sovietica, anticipando 
                        in qualche modo le posizioni espresse qualche giorno dopo 
                        nella famosa intervista sulla situazione internazionale 
                        – rimarrà del tutto isolata nel dibattito, 
                        e anch’egli, alla fine, approverà l’operato 
                        della delegazione italiana e i risultati della conferenza 
                        del Cominform: eppure, nonostante le critiche di cui sarà 
                        oggetto da parte di molti intervenuti, si può osservare 
                        che la sua argomentazione è in ultima analisi condivisa, 
                        per ciò che riguarda la politica del partito, da 
                        tutti i dirigenti di maggior peso. Così, ad esempio, 
                        Scoccimarro, pur nell’ambito di un apprezzamento 
                        per la fondazione del Cominform che risente esplicitamente 
                        di una visione ideologica della situazione internazionale 
                        («L’internazionale non è mai stata 
                        sciolta nel cuore di ogni comunista e perciò io 
                        saluto con entusiasmo la creazione di questo Ufficio») 
                        dichiara: «Sono d’accordo che siano stati 
                        commessi degli errori, ma non credo che occorra portare 
                        oggi un mutamento sostanziale alla nostra linea». 
                        La posizione espressa dopo questa affermazione tende quindi 
                        ad accettare le critiche dei sovietici, ma entro limiti 
                        precisi, senza mettere in discussione la strategia di 
                        fondo del Pci; su questa linea, lo sforzo che faranno 
                        anche altri intervenuti sarà quello di valorizzare 
                        tutti gli elementi di ripensamento e di autocritica già 
                        affiorati nei mesi prece denti, subito dopo l’esclusione 
                        dal governo, ed esposti in modo particolare nelle lettera 
                        inviata il 16 agosto a tutte le organizzazioni di partito 
                        dalla direzione.  
                        Accanto a questa impostazione, si manifesta anche un orientamento 
                        più «duro», attraverso il quale si 
                        esprimono atteggiamenti che giudicano assai probabile 
                        uno svolgimento «catastrofico» della situazione 
                        internazionale, e di conseguenza si preoccupano di attrezzare 
                        il partito per ogni evenienza, ritenendo la lotta parlamentare 
                        priva di prospettive. Chi accentua questi aspetti utilizza 
                        in genere un lessico accentuatamente ideologico, ribadendo 
                        il primato e il ruolo guida dell’Unione Sovietica: 
                        così Colombi afferma che il linguaggio di Terracini 
                        «mi pare non sia un linguaggio da bolscevico [...] 
                        corriamo il pericolo di abdicare alla nostra qualità 
                        di militanti bolscevichi che riconoscono nel Partito comunista 
                        dell’Unione Sovietica il partito dirigente della 
                        classe operaia mondiale [...] dobbiamo, con tutte le nostre 
                        forze, impedire che l’Italia diventi una base di 
                        partenza per l’imperialismo americano ed a questo 
                        scopo occorre portare le masse sul terreno dei grandi 
                        scioperi, senza sacrificare alle fortune elettorali la 
                        necessità della lotta e del combattimento; occorre 
                        cioè vedere se non riusciamo noi a fare ai reazionari 
                        quello che essi vorrebbero fare contro di noi». 
                        Si può dire quindi che il dibattito mette di fronte, 
                        più chiaramente che in altre occasioni, due schieramenti 
                        che mostrano una notevole differenza di vedute, pur convenendo 
                        nell’esprimere una critica comune a Terracini (e 
                        anche all’operato insufficiente di cui ha dato prova 
                        la direzione, e lo stesso Togliatti, nel tradurre in pratica 
                        i necessari elementi di correzione già individuati). 
                        La composizione di questi contrasti avviene, nella replica 
                        di Longo e nell’intervento conclusivo di Togliatti, 
                        su un terreno che accoglie le critiche avanzate, ma senza 
                        trarne tutte le implicazioni, spostando piuttosto il discorso 
                        sulle insufficienze organizzative del partito e sulla 
                        sua difficoltà ad applicare concretamente una linea 
                        giusta: un terreno per così dire mediano, che in 
                        qualche modo nasconde una contraddizione fondamentale 
                        della politica comunista; una contraddizione che vale, 
                        tuttavia, a salvaguardare l’unità del gruppo 
                        dirigente e del partito.  È infatti proprio 
                        l’accoglimento delle critiche mosse all’azione 
                        del Pci in Italia, accompagnato da manifestazioni di omaggio 
                        e di fedeltà alla politica internazionale dell’Urss, 
                        che consente di non mettere sostanzialmente in discussione 
                        la strategia di fondo e la scelta del terreno democratico, 
                        salvaguardando un margine importante di autonomia: il 
                        duro attacco a Terracini – che, per quanto riguarda 
                        la situazione interna, come abbiamo notato, non esprime 
                        una posizione divergente da quella degli altri membri 
                        della direzione – ha anche questa precisa funzione, 
                        in parte, strumentale. 
                        Togliatti, in un discorso che pone termine alla discussione 
                        con toni difensivi e anche interlocutori («mi pare 
                        che [discussione] debba essere considerata come un primo 
                        scambio poiché solo così possono giustificarsi 
                        alcune incertezze, la mancanza di una linea nuova e gli 
                        smarrimenti che qua e là si sono intravisti negli 
                        interventi dei compagni») riprende tutta la tematica 
                        del partito bolscevico, rincarando la dose contro Terracini 
                        e ricordandogli i suoi passati contrasti col partito: 
                        ma per quanto riguarda le osservazioni alla politica del 
                        Pci espresse dal Cominform, afferma: «La critica, 
                        ad ogni modo, non investe tutta la nostra linea; la critica 
                        è giusta soprattutto se si tiene conto del modo 
                        di sviluppo del nostro partito [Occorre dire al partito 
                        che ci sono delle deficienze tali che, se non corrette, 
                        non gli permetteranno di fare dei passi in avanti e di 
                        resistere con successo agli avvenimenti. Bisogna impostare 
                        la critica in modo che non esasperi o scoraggi il partito 
                        e la classe operaia e respingere quella che giustamente 
                        un compagno ha definito la psicosi delle occasioni perdute». 
                        La riunione si conclude con l’approvazione unanime 
                        dell’operato della delegazione italiana alla riunione 
                        costitutiva del Cominform, registrando un sostanziale 
                        accordo interno (di cui la critica a Terracini è 
                        un fattore non trascurabile). Ma, su un diverso piano 
                        di analisi, è anche un’occasione importante 
                        per comprendere la mentalità e la formazione dei 
                        dirigenti comunisti, così come lo sfondo teorico 
                        e le contraddizioni della politica comunista. 
                        I verbali costituiscono, come abbiamo visto in riferimento 
                        ad alcuni temi politici fondamentali del periodo costituente, 
                        un materiale essenziale per comprendere le scelte di fondo 
                        del Pci; ma i dibatti ti interni valgono anche come fonte 
                        e testimonianza preziosa da un altro punto di vista, consentendoci 
                        di investigare efficacemente l’ideologia stessa 
                        del gruppo dirigente comunista. 
                        Intendiamo qui per ideologia non l’adesione alla 
                        teoria e alla prassi del marxismo-leninismo – a 
                        cui, in questi documenti, non troviamo riferimenti – 
                        ma l’insieme dei criteri di fondo che guidano, non 
                        sempre consapevolmente, il ragionamento politico, condizionando 
                        l’attività concreta; le convinzioni fondamentali, 
                        cioè – di carattere non solamente teorico, 
                        ma piuttosto storico e politico – che sono alla 
                        base dell’analisi e dell’interpretazione della 
                        realtà italiana e internazionale, dello stesso 
                        modo di inquadrare e affrontare i problemi da parte del 
                        vertice comunista. Uno sfondo culturale comune, in ultima 
                        analisi, che orienta la «lettura» della situazione, 
                        costituendo un importante fattore – pur nella delineazione 
                        di posizioni e gruppi diversi – dell’elaborazione 
                        e della stessa unità politica della direzione. 
                        Si tratta prima di tutto della convinzione – che 
                        unifica verosimilmente il partito nel suo complesso, e 
                        che occorre tenere ben presente al di là della 
                        sua apparente ovvietà – di «avere dalla 
                        propria parte il futuro». L’intero gruppo 
                        dirigente comunista – cioè, verosimilmente, 
                        tutto il partito – appare infatti convinto che lo 
                        sviluppo storico ha ormai irreversibilmente condannato 
                        il capitalismo e che il socialismo – non dimentichiamo 
                        l’impatto straordinario della vitto ria dell’Urss 
                        contro le potenze dell’Asse – è destinato 
                        a breve scadenza a trionfare. 
                        Possiamo parlare, in questo senso, di un elemento ideologico 
                        di tipo inconsapevolmente millenaristico, che prende la 
                        forma di una sorta di storicismo deterministico, «razionalmente» 
                        sicuro dell’imminente successo del movimento operaio: 
                        un fattore di cui oggi è evidentemente difficile 
                        comprendere tutta l’importanza, ma che certamente 
                        ha giocato un ruolo effettivo e considerevole nell’analisi 
                        e nelle impostazione del Pci 
                        Su questa base si spiegano affermazioni che, a cinquant’anni 
                        di distanza, possono apparire sorprendentemente ingenue, 
                        ma che allora facevano parte del senso comune dei comunisti 
                        (e dei socialisti) di tutto il mondo, e che non a caso 
                        accompagnano la politica del «nuovo corso» 
                        lanciata da Togliatti, come abbiamo visto, dopo il 2 giugno 
                        1946: «La proprietà italiana, se vuole salvarsi, 
                        deve rammentare una buona volta che la legge della conservazione 
                        intelligente [...] si esprime in questi termini: perdere 
                        ogni giorno metodicamente qualcosa per non perdere tutto. 
                        Solo così, la conservazione si allea alla storia 
                        e può rientrare nello sviluppo della democrazia. 
                        Altrimenti perde tutto» 
                        Argomentazioni di questo genere, che costituiscono una 
                        sorta di saldo retroterra storico-politico di tutta la 
                        strategia del «partito nuovo», se ne potrebbero 
                        individuare parecchie, nei documenti e nei discorsi dei 
                        leader comunisti. Nei verbali della direzione, pur non 
                        espressa in forma così evidente, questa certezza 
                        nel futuro si manifesta spesso indirettamente; il riferimento 
                        più significativo è forse il richiamo all’Urss, 
                        alla sua funzione e alla necessità di non avere 
                        esitazioni nel propagandare le conquiste e i traguardi 
                        raggiunti dal «paese del socialismo».  
                        È lo stesso Togliatti, in varie occasioni, a rilevare 
                        come, su questo piano, gli sforzi del partito appaiano 
                        insufficienti, e sia invece opportuno diffondere l’idea 
                        della «superiorità del socialismo»; 
                        il gran de prestigio internazionale dell’Urss, la 
                        potenza mondiale che garantisce con la sua stessa esistenza 
                        l’indubitabile vittoria della classe operaia, dev’essere 
                        convertito in un’arma di propaganda e di penetrazione 
                        nella società italiana, alla quale sarebbe assurdo 
                        rinunciare per timore di effetti controproducenti. 
                        Analizzando i risultati del lavoro di partito nella campagna 
                        elettorale per le amministrative, il segretario del Pci, 
                        nella riunione del la direzione del 9-10 aprile 1946, 
                        afferma a questo proposito: «Secondo me vi è 
                        una enorme deficienza politica per quello che riguarda 
                        la Russia; noi non facciamo propaganda per la Russia, 
                        abbiamo paura, ciò è sbagliato perché 
                        la gente diventa fredda e pensa che il nostro silenzio 
                        vuol dire che quegli altri hanno ragione.  «Occorre 
                        quindi fare una propaganda per la Russia sui quotidiani 
                        ed anche con del materiale di propaganda [...]. Noi dobbiamo 
                        dimostrare la forza della Russia, la possibilità 
                        di questo paese, quello che potremmo avere se gli fossimo 
                        amici e così via». 
                        Più avanti, dopo aver osservato che occorre controbattere 
                        più efficacemente le calunnie contro la Russia, 
                        Togliatti propone di utilizzare, a fini propagandistici, 
                        «un film sovietico (quello, per esempio, della parata 
                        sportiva sulla Piazza Rossa)», e a questo punto 
                        lo interrompe Pajetta: «Noi abbiamo pensato che 
                        la visione di un tale film possa essere controproducente». 
                        Togliatti «Non credo; si tratta di un film che fa 
                        vedere come alcune settimane dopo la fine della guerra 
                        la Russia ha ripreso la sua attività di pace. Fa 
                        vedere lo sviluppo di quella gente, la ricchezza di quel 
                        paese; non capisco come debba essere controproducente 
                        un film a colori tecnicamente perfetto. Credi che producano 
                        qualche cosa i film dei gangsters americani? C’è 
                        qui un errore di impostazione politica dei nostri compagni 
                        e tale errore bisogna correggerlo». 
                        Così il mito dell’Unione Sovietica (e di 
                        Stalin) sarà utilizzato ampiamente nell’opera 
                        di acculturazione politica delle masse che il vertice 
                        comunista persegue costantemente: in questo mito – 
                        vale a dire, in ciò che appariva allora una solida, 
                        determinante realtà – si riassumeva in effetti 
                        un essenziale punto di forza, nel quale si confondevano, 
                        potenziandosi a vicenda, il peso statuale di una grande 
                        potenza e un elemento ideologico (la realizzazione del 
                        socialismo) che costituiva la legittimazione stessa dell’esistenza 
                        e della funzione del Pci.  
                        Il ruolo di tale fattore diverrà ancora maggiore, 
                        evidentemente, quando il partito, in concomitanza con 
                        l’aggravarsi della situazione internazionale, sarà 
                        costretto all’opposizione: allora il punto di riferimento 
                        politico costituito dall’Urss – e dai paesi 
                        di «democrazia popolare» – assolverà 
                        a una funzione decisiva di identità e di forza, 
                        fungendo da contrappeso agli avvenimenti interni e «materializzando», 
                        per così dire, la speranza nel futuro. Non è 
                        un caso, ci sembra, che proprio in questo momento tornino 
                        le recriminazioni sulla tiepidezza del partito nel difendere 
                        l’Urss e siano a maggior ragione ritenute del tutto 
                        inaccettabili le posizioni espresse da Terracini nell’intervista 
                        all’international News Service» che abbiamo 
                        già ricordato. 
                        Nella riunione della direzione (25 ottobre 1947) che discute 
                        proprio questo problema – risolto poi con una sostanziale 
                        autocritica di Terracini nel successivo Cc dell’11-13 
                        novembre 1947 – si manifestano contro il presidente 
                        dell’Assemblea costituente toni e atteggiamenti 
                        molto aspri: assai significativo è il fatto che 
                        la posizione di Terracini sia ritenuta del tutto inconcepibile 
                        per un comunista, sia cioè connessa immediatamente 
                        all’ideologia, e anzi alla stessa unità del 
                        partito. Togliatti, introducendo brevemente la riunione, 
                        sottolinea infatti che «non è assolutamente 
                        possibile che i membri della direzione non condividano 
                        la linea politica del partito». E Giuliano Pajetta 
                        si collega nel suo intervento a questa affermazione, con 
                        parole che richiamano l’eco della tradizione cominternista: 
                        «Le spiegazioni date oggi da Terracini non vanno. 
                        Come si può lottare per l’unità ideologica 
                        del partito quando le divergenze si verificano anche in 
                        seno alla direzione? [...]. Ritengo che la direzione non 
                        possa accontentarsi, come l’opinione pubblica, della 
                        smentita e della rettifica di Terracini. Tutto il partito 
                        sa delle discussioni che si sono avute con Terracini e 
                        chiede, secondo me giustamente, spiegazioni esaurienti». 
                        La critica all’Unione Sovietica è così 
                        ritenuta un elemento di dissenso politico-ideologico intollerabile, 
                        fino a suggerire che questa stessa critica possa essere 
                        la spia di un dissenso relativo a tutta la linea del partito; 
                        Reale dirà infatti, nel suo intervento: «Sono 
                        d’accordo nel considerare assai grave l’intervista 
                        di Terracini; gravi e insoddisfacenti sono, del resto, 
                        le sue giustificazioni. Io ritengo che Terracini non sia 
                        d’accordo su tutta la nostra linea e in particolare 
                        non è d’accordo sulle decisioni di Varsavia». 
                        E Sereni, assente alla riunione, scrive dell’atteggiamento 
                        di Terracini, in una lettera inviata su questo tema alla 
                        segreteria come di un’«effettiva opposizione 
                        alle decisioni della direzione». 
                        Così, l’ideologia del Pci individua nell’Urss 
                        – l’espressione tangibile della certezza nella 
                        vittoria della classe operaia – un primo, essenziale 
                        elemento costitutivo, ben più importante e significativo 
                        dell’ossequio formale al marxismo-leninismo, ripetuto 
                        in qualche rara occasione in modo piuttosto liturgico 
                        (e che fa parte di un armamentario teorico, sostanzialmente 
                        esteriore) La fedeltà all’Urss come «paese 
                        del socialismo» – anche se non come modello 
                        di socialismo; ancora nella relazione ai VI Congresso 
                        (gennaio 1948) Togliatti parlerà infatti di una 
                        «via italiana», formula che aveva già 
                        usato al la Conferenza di organizzazione tenuta a Firenze 
                        nel gennaio 1947 – indica d’altronde il primato 
                        della politica «realistica» (che privilegia 
                        i rapporti di forza, il valore e il peso delle istituzioni, 
                        la potenza statuale) nella impostazione generale del Pci, 
                        e non solo sui piano della politica internazionale. La 
                        medesima impostazione guida infatti l’attività 
                        del «partito nuovo» nella situazione italiana: 
                        qui, parlando di ideologia, dovremmo parlare più 
                        precisamente di principi di analisi politica, di teoria 
                        e pratica del «partito nuovo», e soprattutto 
                        – a nostro parere – dell’elaborazione 
                        dell’esperienza del passato, per cercare di comprendere 
                        le connessioni e il grado complessivo di coerenza di questi 
                        diversi piani. 
                        I verbali della direzione offrono, per un esame di questo 
                        tipo, indicazioni e materiali importanti, che vanno dai 
                        richiami espliciti alle «lezioni» della storia 
                        più recente, ai frammenti di analisi e di interpretazione 
                        della realtà italiana che sostengono determinate 
                        scelte, al linguaggio stesso usato nelle discussioni, 
                        che presenta oscillazioni e mutamenti assai significativi 
                        e registra, dopo la costituzione del Cominform – 
                        un avvenimento che «periodizza» indubbiamente 
                        la storia del Pci, approfondendo l’elemento di svolta 
                        costituito dalla crisi del maggio 1947 – una evidente, 
                        maggiore permeabilità alle formule della tradizione 
                        comunista (così, in qualche occasione, Togliatti 
                        definisce di «fronte popolare» la politica 
                        nei confronti degli altri partiti democratici, mentre 
                        la «democrazia progressiva» si identifica 
                        talvolta con la «democrazia popolare», ecc.). 
                        D’altronde, il primato del realismo politico che 
                        salda, in ultima analisi, i vari livelli di attività 
                        e di consapevolezza del Pci, componendoli in una strategia 
                        unificante, discende dallo stesso atto di nascita del 
                        «partito nuovo», che si può individuare 
                        nella «svolta di Salerno»: un effettivo «compromesso 
                        storico» che implica anche, a ben vedere, un accordo 
                        preciso sul terreno della continuità dello Stato-apparato, 
                        dello Stato-amministrazione, mentre stabilisce, nello 
                        stesso tempo, il predominio dei parti ti nella fondazione 
                        del futuro Stato democratico. 
                        La «svolta di Salerno» rappresenta però 
                        anche l’ultima espressione della politica dei «fronti 
                        popolari» adottata al VII Congresso del l’Internazionale 
                        comunista: già nella genesi, quindi, di un rinnovamento 
                        straordinario del partito comunista, è presente 
                        un fattore di continuità, di richiamo alla tradizione. 
                        Questi due elementi non cessano di agire nel periodo costituente, 
                        disponendosi in una sorta di originale equilibrio, e, 
                        mentre ancorano l’azione del «partito nuovo» 
                        a un’analisi in ogni momento realistica e spregiudicata 
                        della situazione, ne condizionano nello stesso tempo, 
                        almeno in parte, gli sviluppi e le prospettive, mantenendo 
                        in un ambito oggettivamente determinato la sua libertà 
                        di movimento. 
                        Nei dibattiti della direzione, questa sorta di premessa 
                        originaria, di limite costitutivo non espresso, appare 
                        molto evidente per la stessa relativa assenza di un preciso 
                        esame della situazione economico-sociale dell’Italia; 
                        i frammenti di ricerca e di interpretazione che sono reperibili 
                        nei verbali appaiono largamente condizionati dall’analisi 
                        politica in senso stretto, dalla considerazione delle 
                        forze in campo e delle alleanze possibili, e infine dalle 
                        opportunità del momento, che guidano le scelte 
                        del partito anche sui terreno più immediato delle 
                        lotte sociali e delle rivendicazioni economiche. 
                        Nella riunione del 16-18 aprile 1947, dedicata alla «Politica 
                        e all’azione del partito nella situazione presente» 
                        (la relazione è tenuta da Longo), Togliatti esprimerà 
                        nel modo più esplicito questa impostazione, affermando: 
                        «Noi facciamo una politica di alleanza di classi, 
                        questa è la verità; la nostra politica di 
                        fronte popolare, di unità nazionale, di collaborazione 
                        con tutte le forze che vogliono dare un contributo positivo 
                        alla ricostruzione del paese nell’interesse di tutta 
                        la nazione e non di pochi gruppi privilegiati, è 
                        effettivamente una politica di alleanza di classi. Da 
                        questa politica ricaviamo determinate conseguenze nel 
                        campo politico; essa ci porta a compiere determinati atti, 
                        a dare determinati voti in Parlamento, a contenere determinate 
                        campagne, a limitare lo slancio aggressivo delle masse 
                        in determinati momenti per non compromettere i risultati 
                        che vogliamo ottenere e cioè di realizzare una 
                        alleanza politica ed anche di classe con quelle forze 
                        che possono essere nostre alleate nella lotta per raggiungere 
                        determinati obiettivi fondamentali». 
                        Ma, aggiunge subito dopo il segretario del Pci, questo 
                        non deve farci dimenticare le leggi della lotta di classe 
                        che agiscono nel paese, in una «società capitalistica 
                        in sfacelo, in decomposizione in conseguenza della guerra 
                        e di tutte le altre cose e nella quale i vecchi gruppi 
                        dirigenti capitalistici conducono una lotta disperata 
                        per non perdere le loro posizioni» (qui si manifesta, 
                        con evidenza, quello storicismo deterministico che abbiamo 
                        richiamato a proposito della fiducia del gruppo dirigente 
                        nell’ineluttabilità del socialismo). Togliatti 
                        rileva appunto che le necessità politiche concrete 
                        possono indurre a falsare l’analisi della realtà, 
                        possono cioè dissimulare l’acutezza dello 
                        scontro sociale, introducendo nelle file comuniste una 
                        visione della situazione inconsapevolmente deformata: 
                        e non a caso questo avvertimento si iscrive in un periodo 
                        in cui l’aggravarsi del contesto internazionale 
                        fa credere in un imminente pericolo di guerra (e di repressione 
                        anticomunista). 
                        Nelle parole del segretario generale del Pci colto appunto 
                        un dato generale, riscontrabile agevolmente nei dibattiti 
                        precedenti; in effetti, la «lettura» e l’interpretazione 
                        della realtà italiana non solo risente dell’impostazione 
                        politica generale del partito nuovo ma, in una certa misura, 
                        ne fa parte in termini subalterni, la giustifica. Potremmo 
                        dire che il gruppo dirigente del Pci, in questo senso, 
                        elabora e realizza una strategia in cui l’assenza 
                        di schemi politici rigidamente ideologici (nel senso ph 
                        tradizionale del termine), ovvero il suo stesso spregiudicato 
                        realismo, ottunde in parte la visione delle cose, stimolando 
                        ad esempio una relativa fiducia nella Dc che non troverà 
                        riscontro nei fatti. 
                        Ciò avviene anche per i condizionamenti inevitabili 
                        connessi al più «potente» strumento 
                        d’analisi e di conoscenza concreta della realtà 
                        italiana che il gruppo dirigente ha a disposizione: cioè 
                        lo stesso partito, con la sua organizzazione ramificata 
                        e in rapida espansione, e con il rapporto privilegiato 
                        – ma anche, evidentemente, parziale – che 
                        stabilisce nei confronti di precisi strati e gruppi sociali 
                        (i mezzadri dell’Italia centrale, i forti nuclei 
                        operai dei centri settentrionali, ecc.). 
                        E infatti il «partito nuovo» uno dei temi 
                        centrali di questi verbali, in un doppio senso: da un 
                        lato in quanto esplicito oggetto delle cure del vertice, 
                        destinatario di messaggi e di indicazioni che devono tradursi 
                        efficacemente in pratica per realizzare la politica comunista; 
                        dall’altro in quanto organismo in crescita che «si 
                        fa sentire», più o meno direttamente e consapevolmente, 
                        attraverso le esigenze e le tensioni espresse dalle migliaia 
                        dei suoi iscritti, il loro senso comune e la loro ideologia 
                        (su cui sarebbe necessario fare un discorso a par te) 
                        così come attraverso le richieste e le manovre 
                        dell’apparato. In fatti, l’aderenza del «partito 
                        nuovo» – il più grande dei partiti 
                        di massa italiani – alla società nazionale, 
                        mentre trasmette impulsi, correnti, percezioni collettive, 
                        e funziona da tramite, da canale privilegiato, tra il 
                        paese e il gruppo dirigente, costringe quest’ultimo 
                        anche a «venire a patti» con una realtà 
                        politicamente e culturalmente più arretrata, che 
                        potrà essere modificata solo gradualmente. 
                        Ciò costituisce evidentemente un punto da tener 
                        presente per impostare su basi più corrette il 
                        tema già citato della «doppiezza», 
                        che rimanda non solo ai differenti piani e livelli di 
                        consapevolezza e di esperienza politica presenti nel Pci 
                        – un fenomeno inevitabile in qualunque organismo 
                        complesso, e certamente acuito, in questi anni, dalla 
                        tumultuosa rapidità di crescita degli iscritti 
                        – ma anche alla diversità dei relativi tempi 
                        di mutamento e di sviluppo. La stessa complessità 
                        del «partito nuovo» – che è, 
                        nello stesso tempo, ideologia, apparato, strategia, soggettività 
                        collettiva ed altre cose ancora – rende infatti 
                        problematica e non lineare la relazione dinamica tra i 
                        diversi tempi di sviluppo interno: l’ideologia non 
                        «si muove» con io stesso ritmo delle esperienze 
                        politiche concrete, e queste, che posso no essere considerate 
                        il fattore essenziale di sviluppo del partito, non provocano 
                        certo un immediato adeguamento della struttura organizzativa, 
                        più rigida e di conseguenza più lenta (e 
                        si potrebbe continuare). Cosi, la sfasatura tra questi 
                        diversi piani, di cui la cosiddetta «doppiezza» 
                        dà conto solo in termini deformati e riduttivi, 
                        appare all’origine di molti elementi di ambiguità 
                        e di incertezza: come il mancato adeguamento, che il vertice 
                        non tralascia di criticare, dell’azione pratica 
                        alla linea elaborata, o, viceversa, l’espressione 
                        di tendenze e manifestazioni contrarie alla strategia 
                        del partito. 
                        La scelta del partito di massa – riprendiamo il 
                        filo più puntuale del nostro discorso – si 
                        traduce infatti, concretamente, nella larga adesione di 
                        categorie omogenee, unificate da medesime condizioni di 
                        vita e di lavoro, che costituiscono una base di fronte 
                        alla quale il gruppo dirigente si mostra consapevolmente 
                        responsabile; si tratta prima di tutto di sviluppare il 
                        carattere «realizzatore» del partito, di conseguire 
                        cioè dei risultati positivi, concreti, anche sul 
                        piano economico, per evitare la possibilità di 
                        esplosioni sociali incontrollabili Togliatti, osservando 
                        l’importanza di questo terreno di intervento, mette 
                        in luce acutamente la maggiore capacità dell’organizzazione 
                        comunista nel capeggiare e promuovere agitazioni per obietti 
                        vi immediati (manifestazioni di disoccupati, cortei e 
                        proteste contro il carovita, ecc.) rispetto a quella di 
                        individuare e imporre soluzioni per i problemi di fondo, 
                        rilevando i pericoli che possono derivarne in situazioni 
                        determinate. Affrontando le condizioni dei braccianti 
                        del Polesine, che vivono in condizioni miserevoli e senza 
                        prospetti ve di miglioramento, il segretario del Pci afferma 
                        a questo proposito (verbale del 16-18 aprile 1947): «Quando 
                        chiedi a quei compagni: “Qual è la prospettiva 
                        che voi avete? Cosa avverrà qui, fra un anno?”. 
                        I compagni più intelligenti ti dicono: “Se 
                        il partito, fra un anno, non avrà il pugno duro, 
                        qui scoppia tutto perché la gente non può 
                        andare avanti”; e pensate che lì vi sono 
                        dei casi di sommossa dei braccianti che vorrebbero far 
                        saltare gli argini del Po; voi capite che vuoi dire una 
                        cosa simile; non è solo l’interruzione del 
                        traffico sulla via Emilia, ma la cosa è più 
                        grave; lì vi è un problema di riforma agraria, 
                        di investimenti di capitali, di trasformazione di culture». 
                        Il passaggio fondamentale che il «partito nuovo» 
                        deve compiere, per innovare effettivamente la prassi tradizionale, 
                        consiste quindi nel passare dalla propaganda e dall’agitazione 
                        alla capacità di intervenire nei fatti, di realizzare 
                        soluzioni effettive per i problemi sociali. È chiaro 
                        invece che l’ideologia più popolare alla 
                        base del Pci è quella della lotta rivendicativa 
                        immediata, delle agitazioni sociali di protesta, di una 
                        combattività diffusa ma non sempre incisiva e intelligente, 
                        in cui si esprime – sulla base delle reali difficoltà 
                        della situazione – tutto il peso di un antico ribellismo. 
                        Si tratta allora di contemperare esigenze diverse e in 
                        parte contraddittorie che si riflettono, nei verbali, 
                        in una lettura delle condizioni economiche-sociali dell’Italia 
                        che, mentre individua l’arretratezza di aree importanti 
                        del paese (i residui latifondistici nel Mezzogiorno), 
                        non è del tutto priva di orientamenti più 
                        moderni. Così Togliatti, esponendo dopo il 2 giugno 
                        1946 il «nuovo corso», si rifà a un’impostazione 
                        esplicitamente keynesiana, nella quale si riflette un’analisi 
                        che ha come punti di riferimento l’esperienza di 
                        paesi più avanzati, come l’Inghilterra e 
                        gli Stati Uniti. Appare piuttosto come limite, su questo 
                        piano, la «dipendenza» dai movimenti sociali 
                        che si delineano spontaneamente nel paese che evidenzia 
                        come la preoccupazione di controllare e indirizzare le 
                        lotte dei lavoratori prevalga spesso su considerazioni 
                        più profonde. 
                        Da questa esigenza deriva la particolare attenzione del 
                        vertice comunista ai problemi del sindacato, in un periodo 
                        in cui quest’ultimo presenta una debolezza organizzativa 
                        notevole, che spinge Di Vittorio a chiedere a più 
                        riprese un aiuto in termini di quadri e di sostegno politico. 
                        La sensibilità di Togliatti per lo sviluppo del 
                        sindacato, e per le sue specifiche esigenze, appare, nei 
                        dibattiti della direzione, superiore a quella degli altri 
                        membri, che su temi particolari – come lo sblocco 
                        dei licenziamenti – manifestano chiaramente un atteggiamento 
                        di immediata tutela «politica» dei lavoratori, 
                        non sempre in accordo con le misure economiche ritenute, 
                        dallo stesso Di Vittorio, indispensabili. 
                        In generale, del resto, proprio sul piano delle misure 
                        economiche, la situazione non si presenta certo favorevole 
                        per i comunisti, soprattutto perché i partiti moderati 
                        hanno la possibilità di far giocare a loro vantaggio 
                        l’arma del ricatto politico: l’esempio classico 
                        è quello del mancato cambio della moneta. Infatti, 
                        di fronte alla minaccia di un ulteriore rinvio della Costituente, 
                        il Pci rinuncia a irrigidirsi sulla questione del cambio, 
                        abbandonando di fatto, nella riunione del Consiglio dei 
                        ministri dell’il gennaio 1946, questa richiesta 
                        (sulla quale aveva particolarmente insistito, anche in 
                        sede di partito, Scoccimarro, allora ministro delle Finanze). 
                        Non è questa, tuttavia, l’unica ragione dell’atteggiamento 
                        comunista: soprattutto Togliatti – come ammetterà 
                        in seguito – ritiene che il cambio della moneta 
                        sia una misura sgradita alle masse conta dine, verso le 
                        quali il «partito nuovo» si sforzava di realizzare 
                        una politica di alleanza. Tanto è vero che il Pci 
                        non chiederà l’inserimento di questa misura 
                        nel programma del secondo governo De Gasperi, e neanche 
                        nel «nuovo corso economico» lanciato nella 
                        seconda metà del 1946. Nel terzo gabinetto De Gasperi, 
                        i comunisti perderanno inoltre il ministero delle Finanze 
                        (accorpato con quello del Tesoro e affidato a Campilli), 
                        nonostante che Scoccimarro avesse minacciato, in questo 
                        caso, un ritiro del Pci dal governo. Invece, il rospo 
                        viene ingoiato, per salvaguardare – al di là 
                        degli obiettivi economici perseguiti – la formula 
                        del tripartito. 
                        Anche per queste intrinseche motivazioni di opportunità 
                        politica, non si discute troppo dell’economia italiana 
                        nelle riunioni della direzione, e nemmeno delle modalità 
                        della ricostruzione: i problemi economici valgono soprattutto 
                        nel loro significato politico, o in riferimento a determinati 
                        movimenti di lotta Questo indubbio condizionamento, recato 
                        dallo stesso imponente organismo di un partito di massa 
                        in tumultuoso sviluppo, non impedisce comunque che si 
                        discuta approfonditamente delle prospettive economiche 
                        almeno in un’occasione, cioè nella riunione 
                        – già citata più volte – del 
                        16-18 aprile 1947. Longo, introducendo la discussione, 
                        affronta il tema del prestito finanziario degli Stati 
                        Uniti all’Italia, e della possibilità di 
                        mantenere l’alleanza con la Dc riuscendo nello stesso 
                        tempo a conseguire dei risultati concreti sul piano di 
                        una ricostruzione «progressiva», che tuteli 
                        i ceti più disagiati e preveda una qualche forma 
                        di intervento dello stato nell’economia. In questa 
                        occasione – che ha luogo quando è già 
                        nell’aria la crisi che escluderà le sinistre 
                        dal governo – il gruppo dirigente dà vita 
                        un dibattito in cui il realismo politico ed economico 
                        trovano probabilmente, in un reciproco equilibrio, la 
                        loro espressione più avanzata, e il punto estremo 
                        di elaborazione. 
                        Longo si dichiara a favore del prestito internazionale 
                        all’Italia, manifestando una spregiudicatezza che 
                        non sarà reiterata, in condizioni politiche nazionali 
                        e internazionali mutate, di fronte al successivo piano 
                        Marshall: «Se noi comunisti facciamo nostra una 
                        politica che tenga conto della necessità e delle 
                        condizioni per cui è possibile avere dei prestiti, 
                        io credo che noi non saremmo di ostacolo – anche 
                        se fossimo dirigenti del governo – per avere questi 
                        prestiti; cade quindi ciò che si cerca di fare 
                        apparire sui giornali e cioè che una possibilità 
                        di collaborazione economica si può avere solo escludendo 
                        i comunisti dal governo. [...] la finanza internazionale, 
                        oltre a perseguire degli scopi politici, persegue anche 
                        degli scopi economici ed una nostra politica favorevole 
                        dovrebbe smontare il buon gioco che essa finanza ha oggi 
                        dicendo che occorre eliminare noi dal governo perché 
                        essa possa addivenire ad una collaborazione economica». 
                        Longo propone quindi: «nel campo della ricostruzione: 
                        prestito; nel capo della produzione: assicurare allo Stato 
                        leve di comando economiche (nazionalizzazioni, riforma 
                        dell’Iri); nel campo dell’alimentazione: assicurare 
                        l’indispensabile ai lavoratori e alla povera gente». 
                        Il dibattito che segue si presenta di fondamentale importanza 
                        per cogliere, in un momento cruciale, l’ideologia 
                        del gruppo dirigente cioè, appunto, la sua valutazione 
                        complessiva della situazione, i criteri di analisi della 
                        realtà, i limiti soggettivi della percezione politica. 
                        Pur essendo costante il riferimento alle questioni economiche 
                        – che, come in tutti i momenti di crisi effettiva, 
                        assumono un peso assai rilevante, se non decisivo – 
                        la sostanza riguarda infatti la prospettiva che il «partito 
                        nuovo» ha davanti a sé sulla quale si manifestano 
                        differenziazioni e divergenze non secondarie. E, in questo 
                        quadro, colpisce ancora una valutazione della politica 
                        democristiana – presente in molti interventi – 
                        che denota un’evidente mancanza di analisi critica. 
                        Cosi Sereni afferma: «Il problema politico che nasce 
                        è questo: il prestito estero si farà contro 
                        di noi o con noi? E qui si inquadra il problema della 
                        situazione politica generale [...] È mia impressione 
                        che De Gasperi si renda conto che senza i comunisti al 
                        governo egli non può restare [...]. Io credo che 
                        De Gasperi comprenda che una politica apertamente reazionaria 
                        non giova a lui e che la Dc si liquiderebbe, in un processo 
                        di questo genere». 
                        A questa considerazione positiva si contrappone apertamente 
                        Colombi, affrontando il problema nei suoi termini politici 
                        di fondo: «vi è nella nostra prospettiva 
                        una possibilità di accordo con la Democrazia cristiana? 
                        Fin dove è possibile, a noi, continuare una politica 
                        di accordi con la Dc su delle basi che ci portino al compimento 
                        delle riforme strutturali e soprattutto ci portino a venire 
                        in contro ai bisogni delle masse?». Per Colombi, 
                        questa domanda è retorica: «io non penso 
                        che la Dc marcerà a fondo sulla nazionalizzazione, 
                        non penso che essa, nella condizione in cui è oggi, 
                        accetterà di fare una politica tendente a far pagare 
                        veramente alle vecchie classi dirigenti, io non penso 
                        che si possa fare affermare il concetto che l’Iri 
                        diventi uno strumento della politica economica del governo 
                        fino a che la Dc è partito dirigente del governo». 
                        Tuttavia, nel dibattito questo problema rimane sullo sfondo, 
                        «dietro» i temi economici. Così il 
                        verbale ci fornisce una documentazione preziosa anche 
                        dei punti-limite, dei capisaldi economici sui quali, dopo 
                        tre anni di deludente collaborazione governativa, i comunisti 
                        non possono cedere, che sono sostanzialmente – nelle 
                        parole di Togliatti, poi riprese da altri e, nelle conclusioni, 
                        da Longo – due: le nazionalizzazioni (in particolare 
                        quella dell’industria elettrica), e la salvaguardia 
                        (previo risanamento) dell’Iri. Si tratta di una 
                        posizione che esprime compiutamente, ci sembra, una tradizione 
                        ideologica che viene da lontano (le nazionalizzazioni 
                        costituiscono la rivendicazione classica del movimento 
                        operaio di ispirazione socialista) e, nello stesso tempo, 
                        una impostazione più moderna, tesa a garantire 
                        l’intervento dello Stato nell’economia. 
                        Queste misure si collegano evidentemente alla prospettiva 
                        della continuazione della presenza del Pci al governo, 
                        che viene ritenuta ancora più necessaria in un 
                        momento in cui la lotta di classe si sviluppa acutamente 
                        nel paese. Lo stesso Togliatti, prevenendo possibili critiche 
                        alla contradditorietà di questa posizione, sostiene 
                        la necessità di non mutare la linea politica del 
                        partito, ma di riuscire a coniugare la maggiore spregiudicatezza 
                        nell’analisi con una maggiore spregiudicatezza nella 
                        politica concreta. E una visione indubbiamente difficile 
                        da realizzare, che individua per la prima volta l’economia 
                        come un terreno su cui intervenire direttamente e postula 
                        l’acquisizione degli strumenti necessari per sviluppare 
                        una reale capacità di governo, per operare progressive 
                        trasformazioni. 
                        Questo sforzo – che assume criticamente, potremmo 
                        dire in extremis, anche la lezione ricavata dall’esperienza 
                        governativa – è espresso efficacemente da 
                        Longo nell’intervento conclusivo: «Come possiamo 
                        intervenire nella direzione economica? Soltanto con delle 
                        misure politiche o anche con delle misure economiche? 
                        Le misure politiche non bastano e noi dobbiamo mettere 
                        in condizioni le forze democratiche dirigenti dello Stato 
                        di intervenire anche economicamente, come l’industria 
                        elettrica, l’Iri. [...] tutto il nostro piano ha 
                        un senso, anche economicamente, se noi ci assicuriamo 
                        quelle leve sufficienti per potere agire». Torna 
                        in questo senso l’idea di un piano che colleghi 
                        le questioni immediate a quelle generali e che consenta 
                        la mobilitazione dei ceti popolari e medi anche degli 
                        altri partiti, per evitare l’isolamento dei comunisti, 
                        in un’impostazione che richiama tentativi già 
                        esperiti senza successo, come il «nuovo corso». 
                        Una visione che deve fare i conti, prima di tutto, con 
                        i limiti stessi dell’organizzazione e della tradizione 
                        del «partito nuovo» su cui ci siamo già 
                        soffermati e che, in questa stessa occasione, sono di 
                        nuovo messi in luce da Togliatti. 
                        Poiché la preoccupazione fondamentale dei dirigenti 
                        è quella di superare il «primitivismo» 
                        e l’estremismo del partito, che si esprime in molti 
                        episodi riferiti nelle riunioni della direzione, un notevole 
                        impegno è rivolto all’attività di 
                        formazione degli iscritti e a un’attenta politica 
                        dei quadri, perché l’organizzazione riesca 
                        ad assolvere i compiti politici fondamentali, soprattutto 
                        in riferimento ai ceti medi e al rapporto con i socialisti 
                        e i cattolici, i due partiti con i quali il Pci persegue 
                        un’alleanza di lungo periodo. 
                        Le difficoltà non vengono nascoste, e le critiche 
                        che il vertice comunista rivolge alle organizzazioni locali 
                        sono reiterate con precisione, a testimonianza di quanto 
                        arduo fosse un lavoro di «acculturazione» 
                        diretto a masse di lavoratori uscite dal periodo fascista 
                        in uno stato di diffuso analfabetismo politico. Ma il 
                        limite di fondo è significativamente individuato 
                        nella stessa composizione sociale del Pci, che rende difficile 
                        il perseguimento della politica di conquista e di alleanza 
                        coi ceti medi. Secchia, nella relazione sui risultati 
                        delle elezioni amministrative, afferma a questo proposito 
                        (verbale del 9-10 aprile 1946): «Queste elezioni 
                        hanno rivelato chiaramente che il nostro partito è 
                        ancora essenzialmente il partito degli operai e dei braccianti 
                        e non è ancora il partito nuovo che volevamo creare, 
                        cioè un partito che possa avere un’influenza 
                        che vada al di là degli operai e dei salariati. 
                        Quasi dappertutto abbiamo scarsissima influenza tra gli 
                        intellettuali, i commercianti e i bottegai». 
                        E ancora su questo tema, in una lettera (15 aprile 1946) 
                        che la direzione invia a tutti i segretari federali – 
                        nella quale si prendono di mira le maggiori carenze rivelate 
                        nella campagna elettorale dall’organizzazione del 
                        partito – si dice: «Il problema dei ceti medi 
                        e degli intellettuali non è ancora uscito, per 
                        molte nostre organizzazioni, dallo stadio della impostazione: 
                        si scrivono articoli su di esso, si tengono discorsi e 
                        conferenze, ma non si vedono le iniziative concrete per 
                        la difesa di questi gruppi sociali [...]. In parecchie 
                        organizzazioni nostre è ancora tenace l’atteggiamento 
                        ostile o di diffidenza verso i ceti medi urbani e soprattutto 
                        verso gli intellettuali, atteggiamento che deve al più 
                        presto scomparire» 
                        Più avanti, si critica la spontaneità dimostrata 
                        nel lavoro di partito, riaffermando il dovere di ogni 
                        iscritto di impegnarsi individualmente, e soprattutto 
                        si condanna il fenomeno dell’indisciplina, che ripropone 
                        ancora la questione del «primitivismo». Lo 
                        sforzo del gruppo dirigente non si limita, su questo piano, 
                        a lottare contro le velleità insurrezionali, ma 
                        si inserisce in un’opera complessiva di formazione 
                        democratica che cerca di introdurre un costume interno 
                        lontano da «caporalismi» e da autoritarismi, 
                        mirando nello stesso tempo a un sostanziale controllo, 
                        a una guida in termini positivi, delle più acute 
                        tensioni sociali. 
                        Lo sviluppo di un grande partito di massa non permette 
                        del resto una direzione troppo autoritaria e burocratica: 
                        e anche se in effetti i fenomeni di autoritarismo e di 
                        burocratismo appaiono tutt’altro che rari, il vertice 
                        del partito è ben consapevole che non si può 
                        gestire un organismo complesso e articolato, inquadrato 
                        da un numeroso apparato con gli stessi metodi con i quali 
                        si gestiva negli anni Venti il Partito comunista d’Italia, 
                        e si adopera quindi per formare ed educare rapidamente 
                        migliaia e migliaia di quadri, con iniziative che vanno 
                        dalle scuole di partito, all’utilizzazione della 
                        stampa, alle conferenze che molte federazioni organizzano 
                        settimanalmente, sull’esempio di quella di Roma. 
                        Nello stesso tempo, occorre adeguarsi, nel lavoro di agitazione 
                        e propaganda, al livello e alle caratteristiche della 
                        base sociale del Pci: Togliatti è molto attento 
                        a questi aspetti concreti dell’attività del 
                        «partito nuovo», sino a indicare precisamente 
                        i termini e le modalità più efficaci della 
                        propaganda: «Il partito va avanti con opuscoli pesanti, 
                        non accessibili alle grandi masse. – afferma nella 
                        riunione del 14, 16, 18 febbraio 1946, dedicata alla propaganda 
                        per le imminenti elezioni amministrative. – L’errore 
                        che fate è di fidarvi su Spinella, su Onofri ... 
                        Essi sono degli intellettuali, dai quali è alieno 
                        lo spirito della propaganda elettorale; dovete farvi fare, 
                        e discutere, un manifesto, da Di Vittorio, da Longo, da 
                        Scoccimarro, da Amendola, ecc. Non si tratta di mettere 
                        giù molte pagine e gli argomenti che trattano quelli 
                        non servono; occorre della roba molto più viva, 
                        di poche pagine, che possa essere letta in dieci minuti. 
                        Questo, secondo me, è il punto più grave 
                        di deficienza della nostra azione elettorale» 
                        Così il superamento del «primitivismo» 
                        – che si rivela nelle posizioni settarie, nella 
                        sottovalutazione della conquista dei ceti medi, nell’esibizione 
                        di atteggiamenti grossolanamente rivoluzionari, nel l’indulgenza 
                        verso atti di intimidazione e di violenza, ecc. – 
                        è affidato a una molteplicità di mezzi e 
                        di iniziative, di cui fa parte anche una propaganda più 
                        semplice, che servirà a popolarizzare meglio la 
                        politica del partito, consentendo alle organizzazioni 
                        periferiche un effettivo contatto con le masse popolari. 
                        La preoccupazione del gruppo dirigente – in relazione 
                        alle spinte «massimalistiche» ed estremistiche 
                        diffuse nel partito – di non ripetere gli errori 
                        commessi dal movimento operaio nel primo dopo guerra, 
                        non dev’essere d’altronde intesa solo in termini 
                        ristretti, ma si collega a una visione più ampia. 
                        Quella esperienza riveste infatti un carattere generale, 
                        paradigmatico, come mostrano i frequenti riferimenti contenuti 
                        nei verbali, che arrivano talvolta a istituire analogie 
                        o termini di confronto palesemente discutibili, ma proprio 
                        per questo assai indicativi (Secchia, analizzando i risultati 
                        delle elezioni amministrative, illustra addirittura, per 
                        ogni località, il raffronto con quelle del 1920). 
                        Allo stesso modo, la necessità di conquistare i 
                        ceti medi deriva esplicitamente dall’analisi del 
                        «biennio rosso» elaborata in modo particolare 
                        nelle Lezioni sul fascismo di Togliatti (1935)56; persino 
                        gli elementi della tattica elettorale, di cui la direzione 
                        comunista discute in varie occasioni, sono ricollegati, 
                        in molti interventi, all’esperienza dei «blocchi» 
                        realizzati nel 1914 e nel 1920, così come la valutazione 
                        delle caratteristiche e delle ambiguità della Dc 
                        sottintende un richiamo all’esperienza del partito 
                        popolare: si pensa che i cattolici non vorranno ripetere 
                        quella politica di divisione delle forze popolari e di 
                        collusione coi fascismo che aveva contribuito alla crisi 
                        dello Stato liberale.  
                        Così, le categorie storico-politiche fondamentali 
                        usate dalla direzione nel periodo costituente hanno un 
                        retroterra comune, costituito dallo svolgimento e dall’esito 
                        della crisi del primo dopoguerra, che si era risolta nella 
                        sconfitta del movimento operaio e nella messa al bando 
                        per vent’anni dei comunisti e di tutti gli altri 
                        partiti – dal la vita politica nazionale. Quella 
                        vicenda aveva mostrato con evidenza la vocazione antidemocratica 
                        della classe dominante, la tradizione conservatrice dello 
                        Stato, la «presa» di correnti reazionarie 
                        anche su strati popolari: il successo ottenuto con la 
                        Resistenza e la liquidazione del fascismo non poteva certo 
                        far dimenticare il prezzo pagato per gli errori precedenti, 
                        né il pericolo, sempre presente, che si riproducesse 
                        una situazione di crisi della rinata democrazia. 
                        Di qui scaturisce l’ideologia forse più vera 
                        e sentita del gruppo dirigente comunista nel periodo costituente, 
                        che possiamo riassumere nel termine di antifascismo: una 
                        sorta di sistematizzazione e teorizzazione delle esperienze 
                        del passato, o meglio, delle lezioni che ne erano state 
                        ricavate. Una visione che condiziona anche l’analisi 
                        dell’economia e della società italiana, conferendo 
                        una particolare attenzione ai fattori sociali tradizionali 
                        piuttosto che ai più moderni fenomeni – del 
                        resto, in quegli anni, ancora embrionali – di sviluppo 
                        del capitalismo italiano. L’antifascismo appare 
                        in effetti, sulla base dei successi raggiunti nel periodo 
                        1943-47, una concezione politico- ideologica complessiva 
                        che caratterizza la nascita del «partito nuovo», 
                        contribuendo in modo decisivo a fondarne stabilmente l’identità 
                        più profonda. 
                        All’interno della direzione comunista, sulla base 
                        di questo comune sentire, si manifesta una sostanziale 
                        unità, che è certo tra i fattori di maggior 
                        forza e prestigio del partito. Ciò non toglie – 
                        come abbiamo notato in qualche occasione – che si 
                        possano distinguere, attraverso un attento esame delle 
                        varie posizioni, opinioni e atteggia menti differenziati, 
                        che uniscono, talvolta assai significativamente, varie 
                        personalità. 
                        Se si volesse fare una distinzione sommaria (che è 
                        forse l’unica permessa, senza forzature, dalla documentazione) 
                        potremmo osservare che su molti temi decisivi – 
                        dall’organizzazione di partito ai rapporti coi socialisti, 
                        dal tema delle agitazioni operaie a quello del governo 
                        – si delineano spesso divergenze significative tra 
                        personalità più intransigenti, come Colombi, 
                        Roasio, Teresa Noce, Pesenti, che appaiono più 
                        inclini a dar prova di combattività e di durezza, 
                        e dirigenti di maggiore elasticità e prudenza, 
                        come Amendola, Negarville, Novella. Tuttavia, queste differenze 
                        non raggiungono mai il livello di una vera lotta politica, 
                        anche per l’abilità e il riconosciuto prestigio 
                        di Togliatti. In effetti l’unità non è 
                        conseguita in modo meccani CO O esteriore, ma appare come 
                        il risultato di una dialettica intensa, che mette in luce 
                        un importante dato di fondo: la presenza di molte spiccate 
                        individualità, di un ricchezza intellettuale e 
                        politica assai rara. 
                        Il segretario generale del Pci svolge un’azione 
                        pedagogica, possiamo dire, anche all’interno della 
                        direzione, riaffermando in ogni mo mento la validità 
                        della linea di fondo del partito, e riuscendo a manovrare 
                        con abilità di fronte alle disillusioni governative 
                        ed elettorali del 1946-47 La sua funzione appare effettivamente 
                        centrale anche nell’influenzare e guidare i dirigenti 
                        più autorevoli e più vicini a lui, cioè 
                        Longo e Secchia. Così, se volessimo definire più 
                        precisa mente il gruppo dirigente, senza identificarlo 
                        – come abbiamo fatto sinora – con tutta la 
                        direzione del Pci, dovremmo individuarlo in queste tre 
                        maggiori personalità, di cui i verbali mostrano 
                        appieno le capacità di elaborazione e di direzione. 
                        Sono questi tre uomini il nucleo dirigente del Pci nel 
                        periodo costituente, gli artefici principali del primo 
                        compromesso storico. 
                        La storia del Pci è prima di tutto costituita dalle 
                        sue concrete esperienze politiche, e dalla loro successiva 
                        elaborazione e incorporazione in una linea strategica: 
                        attraverso questi verbali, possiamo allora non solo apprezzare 
                        il peso delle lezioni del passato sulle scelte del presente, 
                        ma anche osservare la genesi di un nuovo paradigma, che 
                        si afferma nel periodo costituente sulla base del conseguimento 
                        di quella funzione nazionale che il «partito nuovo» 
                        seppe assolvere nel momento stesso in cui si formava. 
                        Questa esperienza, che segna la genesi stessa del partito 
                        comunista di massa, facendone un soggetto determinante 
                        della vita politica italiana, non cesserà di agire 
                        nei decenni seguenti come un punto di riferimento essenziale, 
                        trovando il suo sviluppo più compiuto nella proposta 
                        del compromesso storico, e nella politica di unità 
                        nazionale degli anni 1976-1979: un tentativo di riprendere 
                        il cammino unita rio interrotto nel 1947, che si concluderà 
                        con una sconfitta politica dalle conseguenze imprevedibili. 
                        Dal fallimento di questa esperienza infatti, prenderà 
                        le mosse la vicenda più recente e travagliata del 
                        Pci, sboccata nella formazione di un nuovo partito. 
                        Ma il discorso, su questo tema, ci porterebbe troppo lontano 
                        dal corretto ambito del nostro lavoro, limitato in questa 
                        sede alle suggestioni e agli spunti più immediati 
                        offerti dalla documentazione raccolta. La nostra introduzione 
                        finisce qui, consegnando al lettore e allo studioso uno 
                        strumento la cui utilità per la comprensione del 
                        passato (e del presente) non ha bisogno di essere ancora 
                        sottolineata. 
                        Al termine della nostra fatica, ci è grato ringraziare 
                        prima di tutto Giuseppe Vacca, che ha voluto ospitare 
                        la presente pubblicazione negli «Annali» della 
                        Fondazione Istituto Gramsci, della quale è direttore. 
                        La nostra sincera gratitudine va inoltre a Fabrizio Zitelli 
                        e Marcello Forti, curatori dell’Archivio del Pci, 
                        per la disponibilità e la competenza dimostrate 
                        nel corso delle ricerche necessarie, e a Gastone Gensini, 
                        responsabile dell’archivio della direzione del Pds, 
                        per le molte indicazioni e informazioni con le quali ha 
                        seguito valida mente il lavoro. Non possiamo dimenticare, 
                        infine, il personale della Fondazione Istituto Gramsci, 
                        che ha collaborato a rendere più agevole il nostro 
                        compito in molti modi, meritando anch’esso la nostra 
                        riconoscenza. | 
                     
                    | 
               
               | 
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          | © 
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