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ANNALE II
La politica del Partito comunista italiano nel periodo costituente.
I verbali della direzione tra il V e il VI Congresso 1946-1948

a cura di Renzo Martinelli e Maria Luisa Righi
Roma, Editori Riuniti, 1992

p. 659, L. 90.000
ISBN 978-88-359-3659-4

Introduzione
di Renzo Martinelli –>
La documentazione che pubblichiamo nel presente volume – tratta dall’archivio del Pci depositato presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma – rappresenta una delle fonti di maggiore importanza per la storia del Partito comunista italiano nel periodo costituente. Si tratta dei verbali – qui riprodotti in forma integrale, e ovviamente nel loro ordine cronologico – di tutte le riunioni della direzione comunista tenute tra il V (29 dicembre 1945-5 gennaio 1946) e il VI (5-10 gennaio 1948) Congresso nazionale, che costituiscono, come è evidente, un osservatorio indispensabile per comprendere appieno l’azione effettiva di un «soggetto» che ha svolto, negli anni in cui la conquista della repubblica e l’elaborazione della Costituzione segnano la nascita dell’Italia democratica, un ruolo determinante. Questo materiale, per il suo intrinseco significato politico, come per la sua natura riservata (la consultazione di documenti di questo tipo è a tutt’oggi limitata ai due maggiori partiti: mentre l’archivio del Pci è già da qualche anno a disposizione degli studiosi, quello della Dc è stato aperto appena qualche mese fa, nel febbraio 1992) presenta un interesse del tutto particolare, che trova un’immediata conferma anche ad una lettura superficiale mentre un esame più approfondito consentirà di ricostruire con precisione i termini del dibattito interno, connettendoli da un lato alle questioni fondamentali del periodo, dall’altro – sullo sfondo del «partito nuovo» – alla formazione e alle caratteristiche del gruppo dirigente.
La direzione è, nel Pci – in un partito che è sempre stato, per vocazione e per tradizione, centralizzato e «verticista» – un organo di rilevante importanza, nel quale si discutono e si decidono (spesso in termini assai poco diplomatici) i problemi politici di fondo e, nello stesso tempo, le questioni concrete di maggior peso relative all’attività del partito. Se infatti è al Comitato centrale che spetta statutariamente la funzione dirigente, è in realtà la direzione ad assumere di fatto questo compito, per il fenomeno – nel quale si manifesta con chiarezza il peso delle tendenze oligarchiche negli organismi collettivi – dell’accentramento del potere nella sede più ristretta (favorita in ciò, indubbiamente, anche dalla sua maggiore snellezza e operatività).
Secondo lo statuto, la direzione – alla quale veniva affidata la guida di tutta l’attività del partito – era eletta dal Comitato centrale, che stabiliva anche «il numero dei membri effettivi e supplenti» a sua volta, essa designava la segreteria, la commissione di organizzazione, i responsabili delle commissioni di lavoro, e infine i direttori dei quotidiani «che hanno funzione di organo centrale del partito»: un’altra prerogativa, di grande importanza, era quella di convocare – ciò che doveva avvenire di regola ogni tre mesi – lo stesso organo da cui derivava la sua investitura, cioè il Cc.
È proprio quest’ultima attribuzione a fondare oggettivamente un primato dell’organo più ristretto rispetto a quello più ampio, che pure, a norma di statuto, aveva il compito di dirigere il partito nel periodo di tempo compreso tra due congressi infatti, l’orientamento politico generale sul quale il Cc avrebbe discusso, era preliminarmente concordato in direzione, e così un insieme di altri problemi concreti, attinenti agli spostamenti dei quadri, alle iniziative pubbliche, alla gestione della stampa, ecc. Riunendosi, in questo periodo, piuttosto frequentemente, la direzione esercitava inoltre un controllo abbastanza stretto sull’attività generale del partito, lasciando alla segreteria – un organismo che assumerà in seguito, tuttavia, un peso sempre maggiore – dei compiti essenzialmente organizzativi: la sua funzione poteva quindi essere considerata davvero centrale, come una sorta di «motore» del partito.
Le analisi e le previsioni dibattute al suo interno, l’interpretazione degli avvenimenti italiani e internazionali, la «lettura» della situazione economico-sociale e le opzioni che ne derivano, sono quindi – proprio per il ruolo dominante, di effettiva responsabilità, che svolgeva la direzione comunista – gli elementi di maggiore interesse che possiamo trarre da questi verbali: cosi, attraverso la conoscenza approfondita dei modo stesso in cui, nella discussione, i suoi membri pervenivano ad elaborare un’azione determinata partendo da idee, opinioni, valutazioni particolari, possiamo analizzare l’effettiva politica del Pci, cogliendo il processo più intimo delle decisioni, l’aspetto anche personale delle scelte dirette ad intervenire sulla realtà.
Ed è attraverso questa possibilità di seguire «in presa diretta», senza troppe mediazioni o diaframmi, lo sviluppo di questa analisi collettiva, che possiamo farci un concetto più preciso anche dell’ideologia, più o meno consapevole, del vertice comunista, che si manifesta assai chiaramente quando vengono affrontati i problemi politici di fondo; ma che si rivela, talvolta, anche nelle scelte apparentemente più trascurabili (come l’impostazione di determinate campagne di stampa, le argomentazioni relative a temi particolari, lo stesso linguaggio usato nel corso di determinate discussioni, ecc.).
Prima di schizzare rapidamente le caratteristiche più precise del dibattito interno, è opportuno ricordare la composizione della prima direzione del Pci regolarmente eletta dopo la Liberazione – che è appunto quella designata dal Comitato centrale nella sua prima riunione, immediatamente successiva alla fine dei lavori del V Congresso. Ne fanno parte 16 membri effettivi (Amendola, Colombi, Di Vittorio, Li Causi, Longo, Massola, Negarville, Novella, Pajetta, Roveda, Scoccimarro, Secchia, Sereni, Roasio, Spano, Togliatti) e 6 membri candidati (D’Onofrio, Grieco, Rita Montagnana, Teresa Noce, Giuliano Pajetta, Terracini) un organismo in definitiva assai ristretto, se si pensa che il Pci contava allora già due milioni circa di iscritti.
Tutti i membri della direzione, ad eccezione di Emilio Sereni (che è quindi, in questo senso, l’unico «homo novus»), facevano comunque già parte di quella precedente, che aveva preparato il V Congresso, e rispetto alla quale non vi sono quindi – in relazione alle caratteristiche sociali e alla formazione intellettuale e politica dei vari membri – mutamenti di rilievo. La direzione comunista si conferma infatti come un organismo quasi esclusivamente maschile (solo due donne sono presenti, e per di più tra i membri candidati), formato da dirigenti sperimentati e capaci, che sono tutti «rivoluzionari di professione»: è questo il dato che unifica uomini di diversa estrazione sociale, provenienti dal mondo del lavoro, come Secchia o Roasio, o di origine intellettuale, come Togliatti o Sereni, ma attivi nel partito già da molto tempo; maturati politicamente, cioè, prima del crollo del fascismo e della Resistenza.
È questo un dato che sottolinea fortemente l’elemento della continuità, ben rappresentato del resto dalle stesse figure dei massimi dirigenti – Togliatti (segretario generale), e Longo (vicesegretario generale) – nelle quali si riflettono le esperienze politiche formative di un’intera generazione di comunisti venuti all’impegno politico sotto le bandiere del marxismo e della Terza Internazionale: dalla lotta antifascista in Italia, con il suo corredo di anni di galera e di esilio, alla scuola leninista di Mosca, alle battaglie in Spagna e nella guerra di Liberazione. Tale continuità significa anche un notevole grado di omogeneità: sulla base della loro formazione e della loro esperienza, i membri della direzione del Pci sono in grado di «leggere» ciò che accade nel mondo e in Italia secondo schemi e criteri generali comuni, rapportando i fenomeni sociali e politici alla struttura di classe e alla storia concreta del paese – una storia recente vissuta direttamente e «personalmente», che costituisce lo sfondo permanente dell’analisi e della discussione interna.
In questo senso, lo «storicismo» dei dirigenti comunisti, di cui si è spesso parlato in termini piuttosto generici, non è solo un astratto elemento della loro formazione culturale, più o meno rilevante nelle diverse personalità – e certamente assai spiccato in Togliatti – ma rappresenta anche, in qualche misura, un portato dei fatti, un esito delle prove attraversate collettivamente. Da questo punto di vista, l’antitesi fascismo/antifascismo è indubbiamente la base storico-politica fondamentale, il referente più stabile e costante di tutta l’elaborazione del Pci nel periodo costituente, ciò che occorre tenere ben presente per comprendere i criteri politici di fondo e l’ottica stessa del dibattito interno.
È evidente che, per analizzare il significato della documentazione costituita da questi verbali, occorre considerare la situazione storica nella quale si inserisce e da cui acquista valore, senza perdere di vista il condizionamento oggettivo costituito dalla struttura stessa del «partito nuovo»: una «macchina organizzativa» già assai sviluppata al momento del V Congresso, e che non cesserà di rafforzarsi e di complicarsi nei due anni successivi.
Come il lettore vedrà, i temi affrontati nelle riunioni della direzione si connettono ai più significativi avvenimenti di quegli anni, tanto da fornire quasi una sorta di «sommario» dei nodi più rilevanti della vita politica italiana: per un approfondito inquadramento storico rimandiamo perciò ai testi più noti sul periodo (tra i quali manca, tuttavia, uno studio complessivo sul Pci).
È invece opportuno richiamare, almeno sommariamente, gli esiti politici del V Congresso, dal momento che la direzione del Pci ricava da questa assise nazionale – la prima dopo il 1931, quando i comunisti si erano riuniti clandestinamente a Colonia – non solo la sua legittimità, ma soprattutto la linea strategica fondamentale da seguire.
Il congresso si era svolto a Roma a cavallo tra il 1945 e il 1946, poco dopo il varo del primo governo De Gasperi, a cui il Pci partecipava con la responsabilità di tre ministeri: la Giustizia (Togliatti), l’Agricoltura (Gullo), e le Finanze (Scoccimarro).
La prospettiva su cui puntavano esplicitamente i dirigenti comunisti era quella di una duratura collaborazione con la Dc e con il Psi, cioè quella di una stabilizzazione della formula dell’unità antifascista: l’obiettivo di rimanere al governo del paese (così da avviare concretamente una politica di rinnovamento economico-sociale basata sulle cosiddette «riforme di struttura») anche dopo le elezioni della Costituente e la scelta istituzionale – due scadenze imminenti, dalle quali si riteneva potesse scaturire, oltre alla conquista di una democrazia avanzata, anche un ulteriore rafforzamento del partito – pare va, se non scontato, del tutto realistico. Una simile prospettiva richiedeva evidentemente un clima internazionale favorevole, nel quale rimanesse fermo, come elemento fondamentale, l’accordo tra le tre grandi potenze: sarà inutile ricordare, a questo proposito, che al momento del V Congresso la guerra fredda non era ancora un fenomeno dominante, né la divisione dell’Europa in blocchi contrapposti sembrava ineluttabile, anche se i segni premonitori erano già abbastanza visibili.
In questo quadro, il rapporto di Togliatti al congresso si caratterizzò come la più efficace e completa esposizione della strategia di un partito che aveva già affermato la propria funzione nazionale, e che appariva legittimamente fiducioso nella possibilità di continuare a giocare in futuro, grazie alla sua forza e alla sua capacità politica, un ruolo importante nel governo del paese. Nel rapporto era lucidamente articolata la linea tesa a stimolare un progresso democratico continuo – la lotta, appunto, per una «democrazia progressiva» – alla quale i comunisti affidavano le loro speranze di imprimere al paese un graduale sviluppo «verso il socialismo». Due fattori erano ritenuti essenziali a questo disegno: il mantenimento della collaborazione con la Dc, e la realizzazione di una stretta unità politica – anzi, di una unità organica, cioè di una fusione – tra i socialisti e i comunisti.
Questa fusione tra il Pci e il Psi, con la conseguente formazione di un nuovo grande partito della sinistra, appariva tuttavia, già al momento del congresso, assai poco realistica; e infatti, nella relazione dedicata da Longo a questo tema, si ripiegava di fatto sulla proposta transitoria di una federazione tra i due partiti. La prospettiva dell’unità organica veniva comunque mantenuta nel suo valore strategico, nonostante le reticenze e le difficoltà che cominciavano ad essere espresse da parte socialista Infatti, i termini essenziali del sistema politico italiano – già evidenti ancora prima della Costituente nell’emergere, sullo sfondo di un’articolata pluralità di formazioni minori, dei tre grandi partiti di massa – indicavano realisticamente ai comunisti la necessità di una politica di alleanze capace di realizzarsi nello stesso tempo, in forme e modi diversi, su questi due terreni: quello del travagliato rapporto, da sempre problematico, coi socialisti, e quello, nuovo, di una collaborazione coi cattolici.
Proprio su questo piano, tuttavia, il Pci dovrà registrare una decisiva sconfitta: escluso dal governo del paese nella primavera del 1947 insieme con i socialisti – con i quali, mentre la prospettiva della fusione sfuma definitivamente, viene comunque rinnovato il patto d’unità d’azione – si troverà a capeggiare una dura lotta di opposizione che, al momento del VI Congresso (gennaio 1948), sarà nondimeno considerata – pur in un clima nazionale e internazionale assai negativo – come la leva e la garanzia di un’imminente vittoria elettorale.
In definitiva, il bilancio di questi due anni cruciali non certo positivo, per i membri della direzione comunista, almeno sul piano propriamente politico; mentre per quanto riguarda il rinnovamento istituzionale, e la crescita del «partito nuovo», si può invece parlare di un rilevante successo. Questa contraddizione tra lo sviluppo quantitativo del Pci e la sua mancata affermazione come forza di governo, tra il ruolo storico determinante assolto nel periodo costituente e la debolezza evidente sul piano politico, un dato assai significativo, che riflette con efficacia – sullo sfondo di una situazione in rapido mutamento – la stessa natura variegata e complessa del partito.
Il V Congresso aveva lanciato con forza la campagna per la repubblica e la Costituente, proponendo contemporaneamente un insieme di riforme strutturali che avrebbero dovuto ricostruire l’economia italiana in termini di sviluppo e di equità sociale: ma era l’obiettivo del rinnovamento istituzionale, con ogni evidenza, ciò che stava più a cuore ai comunisti, resi consapevoli, attraverso l’esperienza del fascismo, del valore della democrazia. Nella risoluzione approvata al termine dei lavori, questa impostazione – già esplicita nella relazione introduttiva di Togliatti – espressa in termini sintetici, con una chiara esposizione della linea politica alla cui realizzazione dovranno lavorare gli organismi dirigenti.
Il primo obiettivo dunque quello di ottenere finalmente la Costituente e la repubblica; non vi dovrà essere più alcun rinvio di un’assemblea che il partito «considera [...] come l’inizio di un rinnovamento profondo e radicale di tutta la vita del paese. Con essa dovrà prendere nuovo slancio l’azione diretta a restituire all’Italia la piena indipendenza nazionale, la unità politica e morale, la libertà democratica, il benessere per le masse lavoratrici e il posto che le spetta tra i popoli liberi dell’Europa e del mondo»
Alla Costituente viene così attribuita una funzione decisiva; ciò anche in relazione al pericolo di un risorgere del fascismo, più probabile e minaccioso in una situazione ancora fluida, e che poteva trovare alimento nelle tensioni politiche e sociali diffuse in tutto il paese. A questo pericolo contribuivano sia la riorganizzazione di strutture e formazioni neofasciste, sia la spinta estremistica di determinati strati del Pci, a cui risaliva non di rado la responsabilità di tumulti ed episodi sanguinosi – «regolamenti di conti», vendette personali, giudizi sommari – particolarmente frequenti in Emilia-Romagna (una regione, com’è noto, in cui la Resistenza aveva assunto più distintamente i caratteri di un duro scontro di classe).
A questo proposito, pensiamo non ci sia più bisogno, ormai, di argomentare l’inconsistenza di una «doppiezza» del Pci, volto, secondo vecchi stilemi polemici, a preparare l’insurrezione fingendosi nel contempo democratico: si tratta di un’argomentazione propagandistica che non trova un effettivo riscontro nei fatti e che riceve la più chiara smentita proprio dai verbali della direzione. Come il lettore potrà notare agevolmente, il timore di un precipitare della situazione, con la conseguente necessità di tenere a freno le frange estremiste, evitando, nello stesso tempo, un rafforzamento del fronte moderato e conservatore – e le due cose apparivano strettamente collegate – si presenta infatti come una costante in tutta la discussione interna, illuminando con chiarezza il peso rilevante esercitato sulla concreta strategia comunista dalle esperienze del passato.
Non possibile, infatti, comprendere la politica del Pci in questo periodo senza valutare appieno quanto abbia inciso, sullo stesso modo di ragionare dei suoi dirigenti, la riflessione sul cosiddetto «diciannovismo»: da questa esperienza deriva infatti la preoccupazione che si possa ripetere una situazione analoga ogni volta che i contrasti sociali e politici raggiungono una soglia eccessiva, rischiando di sconfinare sul terreno della provocazione e della violenza. Per questo, una delle costanti più evidenti nello sforzo pedagogico messo in opera dal gruppo dirigente per «acculturare» un partito di due milioni di iscritti (composto, nella sua grande maggioranza, da lavoratori manuali) si può individuare appunto nel superamento dell’estremismo, e nella diffusione di un costume democratico capace di soppiantare le impostazioni settarie o ideologicamente dogmatiche. È uno sforzo complesso e non facile, che trova un riscontro preciso anche nel nuovo statuto, nel quale l’iscrizione al partito è consentita sulla base dell’accettazione del programma politico, «indipendente mente dalla razza, dalla fede religiosa, e dalle convinzioni filosofiche»
Ma se il Pci aveva indubbiamente compiuto una chiara scelta a favore della democrazia – e si preoccupava di evitare che fosse messa in pericolo con errori già scontati a caro prezzo in passato – aveva certamente anche qualche ragione per diffidare dei suoi avversari: ottenere la Costituente e la repubblica appariva di conseguenza un obiettivo continuamente insidiato, continuamente in pericolo; e a maggior ragione, quindi, appariva come un fattore profondo di stabilizzazione democratica, una conquista necessaria per la stessa salvaguardia dell’esistenza del partito e per il più agevole sviluppo, secondo anche una vecchia indicazione di Engels, della lotta della classe operaia.
I comunisti, d’altra parte, erano ben consapevoli che il conseguimento dei loro obiettivi fondamentali in quella fase richiedeva una situazione internazionale favorevole, e fin da questo momento – non avendo grandi possibilità di influire su questo piano – il gruppo dirigente si sforza di «esorcizzare», con ripetute dichiarazioni, la temuta prospettiva di un inasprimento dei rapporti tra le grandi potenze, e di una conseguente divisione dell’Europa in blocchi contrapposti: «Il partito comunista – si legge nel documento già citato – è contrario a una politica di “blocchi” di potenze, perché tale politica non potrebbe mettere capo ad altro che all’asservimento diretto o indiretto del nostro paese. Esso desidera che nel campo economico la collaborazione e gli aiuti indispensabili, e le garanzie che debbono accompagnare questo aiuto, si realizzino in modo che non diminuisca l’indipendenza nazionale e consenta la difesa degli interessi dei diritti della nostra emigrazione». L’Italia deve attuare una politica di pace, cercando «la sua salvezza nella unità di queste grandi potenze» e respingendo l’ostilità e gli intrighi contro l’Urss, nelle cui popolazioni «gli operai e la parte più avanzata dei lavoratori italiani vedono i portatori nel mondo di una nuova civiltà.
Questa impostazione di politica estera – che postula conseguentemente, per risolvere il problema di Trieste, trattative dirette tra Italia e Jugoslavia – si scontrerà assai presto con le prime, concrete manifestazioni della «guerra fredda». Queste ridurranno gradualmente le possibilità di manovra dei comunisti: così, anche il programma di riforme delineato al congresso rimarrà in sostanza lettera morta. Nella risoluzione approvata sono, a questo proposito, esposti degli obiettivi assai avanzati, che comprendono in primo luogo, accanto alla riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato, la riforma industriale e agraria, con la nazionalizzazione «dei grandi complessi monopolisti, delle grandi banche e delle compagnie di assicurazione, un inizio di pianificazione nazionale e l’istituzione di un sistema di controllo nazionale della produzione, il cui primo passo sarà la estensione generale e il riconoscimento dei consigli di gestione» Nel campo agricolo, sono proposte la liquidazione del latifondo, la riforma dei patti agrari, la difesa della piccola e media proprietà.
Si tratta di proposte generali, che indicano uno stato d’animo e una posizione che si possono indubbiamente definire «di attacco»: pur consapevoli delle difficoltà, i comunisti escono dal loro V Congresso – anche per il peso e l’impressione suscitati dall’imponente crescita numerica del «partito nuovo» – con un margine evidente di sopravvalutazione delle possibilità oggettivamente consentite dalla situazione. In effetti, se si confronta la linea programmatica tracciata dal documento preso in esame con i risultati conseguiti praticamente nei due anni successivi, si ha il senso preciso della sconfitta che il «partito nuovo» ha dovuto registrare sul piano politico e su quello economico-sociale. A questa fanno da contrappeso la formazione di un grande partito di massa e il rinnovamento istituzionale, configurando nell’insieme, come abbiamo rilevato più sopra, una sorta di paradosso, che è all’origine della irripetibile singolarità di una vicenda storica – quella del Pci – ormai conclusa.
I temi affrontati nelle discussioni della direzione ripercorrono i nodi politici del biennio 1946-47: così, dal risultato delle elezioni amministrative, al referendum istituzionale, all’esclusione dal governo delle sinistre, alla lotta contro il governo De Gasperi nella seconda metà del 1947, si delinea concretamente il senso profondo della strategia comunista, la «lettura» che della situazione italiana viene data dai dirigenti del Pci. Accanto a questi argomenti, non si può non rilevare lo spazio dedicato, nel dibattito, ai problemi dello sviluppo stesso del «partito nuovo», e, correlativamente, al rapporto con l’Unione sovietica. Un esame che tenga d’occhio questi diversi piani – e soprattutto, evidentemente, le loro connessioni – è destinato a sgombrare il campo da molte superfetazioni polemiche e mitologiche e da molte incrostazioni strumentali, offrendo per la prima volta la possibilità di giudicare la vita del Pci non già sulla base di categorie discutibili – abbiamo già ricordato la famigerata «doppiezza» – ma in riferimento alla concreta realtà storica.
I verbali che ci sono pervenuti riguardano poco meno di quaranta riunioni della direzione e sono, di norma, sufficientemente ampi e corretti: solo in qualche caso si tratta di sintesi o di stesure incomplete. Considerando che accanto alla direzione operava una segreteria per il lavoro quotidiano, e il Comitato centrale per il dibattito più ampio, non si tratta certo di un numero esiguo: la direzione si riunisce mediamente due volte al mese e affronta in genere pochi ma definiti punti all’ordine del giorno, dando vita spesso a una discussione che dura più giorni. In questa sede ci limiteremo, senza svolgere un esame analitico del materiale, a qualche osservazione sui dibattiti – concernenti la Costituente, la crisi di governo del maggio 1947, la fondazione del Cominform, la politica economica – che ci sono sembrati più significativi.
La discussione che si svolge sulla questione istituzionale si intreccia cronologicamente con la preparazione, e poi con la concreta effettuazione, delle elezioni amministrative: le prime votazioni che si tengono in Italia dopo la caduta del fascismo, e le prime che – con la partecipazione delle donne – si svolgono a suffragio universale. Nello stesso tempo, il dibattito tra le forze politiche, è incentrato sulla scadenza e sui poteri dell’Assemblea costituente: in questo dibattito si inseriscono due questioni particolari, quella dell’obbligatorietà del voto e quella, sollevata dai liberali, di un referendum che sottragga la scelta istituzionale alla Costituente per rimetterla al giudizio popolare.
I comunisti sono contrari ad ambedue queste proposte, ma la situazione è tale che – mentre ottengono di fatto l’abbandono della prima – non possono opporsi efficacemente alla seconda. Sul piano politico, due sono gli obiettivi del Pci, che si tengono a vicenda: prima di tutto la Costituente, il fine a cui non si può rinunciare a costo di compromessi anche pesanti; quindi la presenza nel governo del paese. La discussione interna mostra che il gruppo dirigente è pronto a concessioni rilevanti per ottenere questi due risultati, dando prova di flessibilità e moderazione costanti, ispirate nello stesso tempo dalla situazione reale – che non consentiva certo atteggiamenti troppo radicali – e, come abbiamo già notato, dalle esperienze del passato (la lezione, in particolare, dell’avvento del fascismo), profondamente interiorizzate e assimilate dal vertice del Pci.
Il richiamo al periodo 1919-20, ricorrente in molti articoli e discorsi dei dirigenti comunisti, non ha infatti un valore rituale o propagandistico, ma risponde ad effettive preoccupazioni, mostrando con evidenza quella forma di sommaria analogia storica a cui, sembra, gli uomini politici non sanno rinunciare. D’altronde, per quanto riguarda la Costituente, la vittoria della repubblica al referendum (ottenuta con un margine assai ristretto di voti favorevoli) fu preceduta, com’è noto, da manovre e tentativi che inducono a ritenere la prudenza e i timori dei comunisti effettivamente fondati. Togliatti non aveva mai dato per scontato l’obiettivo della Costituente, e aveva insistito in varie occasioni sulle difficoltà da superare, denunciando il sabotaggio, la resistenza passiva, le esplicite riserve degli ambienti più conservatori.
Questi timori – relativi soprattutto al pericolo di un colpo di Stato monarchico, che appare, immediatamente prima e immediatamente dopo lo svolgimento del referendum, come una minaccia reale – sono alla base di una accentuata preoccupazione difensiva, assai comprensibile in un partito che aveva vissuto recentemente anni di persecuzioni e di vita clandestina. Come si può notare, i verbali della direzione testimoniano questa preoccupazione esclusivamente difensiva – che certamente, alla base, poteva venire interpretata in modo diverso – prendendo in esame anche l’eventualità di una reazione alle minacce antidemocratiche. Ma indicano soprattutto – ciò che è molto più significativo – con quanta attenzione e prudenza i comunisti, e in particolare Togliatti, valutassero realisticamente la situazione, e fossero pronti, in sostanza, ad accontentarsi anche di un successo parziale.
Nella riunione che si tiene alla metà di febbraio, affrontando lo specifico punto dei poteri della Costituente, e la proposta di Nenni di accettare il referendum preventivo sulla questione istituzionale al quale i comunisti si erano fino a quel momento dichiarati contrari – Togliatti afferma: «De Gasperi ci vuoi far ricattare sul tipo di repubblica perché egli pensa di dire: repubblica si, ma repubblica col crocifisso, col papa presidente». Longo, che interviene subito dopo, pone la questione di un eventuale colpo di Stato, ottenendo da Togliatti una risposta assai indicativa per comprendere l’analisi della situazione sviluppata dai comunisti. Per il vicesegretario del Pci «Su questa questione dovremmo avere un’idea esatta su quello che è l’atteggiamento degli Alleati perché in ultima analisi, sul terreno della forza sono essi che decideranno. Saranno decisi ad impedire una repubblica? Saranno decisi ad impedire un colpo di mano dei monarchici?». A questi interrogativi Togliatti risponde: «lo credo che su questo punto, sul terreno della forza, non possiamo essere molto sicuri perché la monarchia si organizza e, poi, sarà aiutata dagli Alleati stessi; poi ci sono i carabinieri ed anche una parte dell’esercito. Posta così la questione a me pare che a noi non convenga arrivare cosi, improvvisamente, non preparati organizzativamente dal punto di vista di lotta armata [...]. Io penso che non abbiamo nessun interesse a provocare un colpo di forza; a noi converrebbe che alle elezioni non ci sia alcuna provocazione per il colpo di Stato monarchico». In base a queste considerazioni, il capo del Pci si mostra disponibile anche ad accettare che il referendum si svolga dopo le elezioni per la Costituente, affermando: «dovremmo pagare nel senso che la repubblica non viene fatta il giorno delle elezioni ma dopo 7-8 mesi e sarà una repubblica di tipo diverso, col crocifisso ed il papa, ma sarebbe tuttavia un passo avanti anche se piccolo».
Una posizione che mostra chiaramente quanto fosse considerato importante – al di là delle caratteristiche che avrebbe potuto assumere concretamente – l’obiettivo del rinnovamento istituzionale.
Sulla questione del colpo di Stato, comunque, non tutti si dimostrano cauti come Togliatti; Di Vittorio, ad esempio, afferma: «Quanto al colpo di Stato stesso, la sua possibilità deve essere esaminata seriamente [...]; noi abbiamo una qualche esperienza e possediamo dei quadri che ci possono permettere di far fronte al colpo di Stato. [...] non bisogna considerare l’eventualità di un colpo di Stato come una cosa contro la quale non abbiamo nulla da fare e da dire. Io penso che il partito debba rivedere questa eventualità e prendere le misure necessarie, lavorando, naturalmente, per cercare di evitare una tale eventualità».
La discussione su questo tema continua con pareri diversi e anche contrapposti: mentre Togliatti e Longo sono assai preoccupati, in questo momento, per l’ipotesi del referendum preventivo, altri, come Li Causi, ritengono invece che potrebbe essere un vantaggio la contemporaneità del referendum e delle elezioni. Il problema sarà risolto pochi giorni dopo, nella riunione della direzione del 25 febbraio, quando di fatto è stato già trovato un compromesso sul voto obbligatorio, e dopo che i socialisti si sono pronunciati a favore di un referendum da tenersi nello stesso giorno delle elezioni. La direzione comunista – anche per la possibilità che venga chiesto un referendum sui poteri della Costituente – decide di accettare questa proposta: in una brevissima riunione è quindi messa di nuovo in luce, con maggiore evidenza, l’importanza attribuita all’obiettivo fondamentale del partito: ottenere finalmente la Costituente. Si può anche cedere, per questo, sul tema del referendum, poiché la vittoria della repubblica è considerata sicura.
Longo esprime nel modo più chiaro questo atteggiamento, sottolineando il pericolo di «spaventare» i ceti medi: «bisogna centrare l’attenzione sulla repubblica [...] sarebbe conveniente accettare un referendum preventivo sulla questione monarchia o repubblica. Nel caso che si dovesse svolgere anche un referendum sui poteri della Costituente dovranno presentarsi con una posizione che contenga i poteri in certi limiti che non spaventino determinate categorie».
Il valore attribuito dai comunisti al mutamento istituzionale, che in questo medesimo periodo li spinge a una grande moderazione anche sul piano economico-sociale, attenuando notevolmente i tratti più immediati e combattivi della loro stessa identità politica, è forse anche all’origine del risultato, per certi aspetti singolare e inaspettato, del 2 giugno: la vittoria della repubblica, ma la sconfitta, in qualche misura, dei partiti più dichiaratamente e combattivamente repubblicani (comunisti e socialisti) rispetto alla Dc. L’impostazione stessa della campagna elettorale condotta dal Pci – un’impostazione già adottata, in effetti, per il primo turno dell’impostazione stessa della campagna elettorale condotta dal Pci – un’impostazione già adottata, in effetti, per il primo turno delle elezioni amministrative – privilegia infatti nettamente, piuttosto che insistere sui tradizionali temi sociali, la questione istituzionale.
A questo proposito, si manifestano all’interno della direzione anche delle significative differenziazioni, tra chi appunto sottolinea il peso delle questioni economiche e della competizione con gli altri partiti (Roasio, Teresa Noce) e chi invece – primo fra tutti Togliatti – è pronto a grandi concessioni, pur di favorire tra i partiti democratici un atteggiamento unitario in favore della repubblica. La linea di composizione e di sintesi di queste differenziazioni – che rimangono tuttavia nell’ambito di una semplice varietà di opinioni, senza delineare veri e propri contrasti – è comunque assai più vicina alle posizioni di Togliatti, di Longo, di Secchia che non a quelle dei dirigenti, citati più sopra, indubbiamente di minor peso politico.
Non esistono altri verbali espressamente dedicati alla Costituente, e nemmeno ai risultati del 2 giugno, che appaiono al partito piuttosto deludenti. Pur avendo infatti, conseguito l’obiettivo essenziale, cioè la repubblica, i rapporti di forza usciti dalle urne non possono non porre ai comunisti qualche problema, in rapporto alla loro presenza nel governo del paese. E in effetti, da questo momento fino all’espulsione delle sinistre dal governo nel maggio 1947, su questo tema vi sarà, nel gruppo dirigente comunista un teso dibattito, più o meno esplicito, che ha come sfondo una situazione in continuo movimento, caratterizzata da una prima incrinatura nei rapporti interni alla maggioranza già nell’estate del 1946 (superata con la sostituzione di Corbino al ministero delle Finanze), poi da due successive crisi di governo; la prima nel gennaio, la seconda, che porterà infine alla conclusione dell’unità antifascista, nel maggio 1947. A questo proposito i verbali recano un contributo di conoscenza non trascurabile, illuminando efficacemente i limiti dell’analisi e della percezione politica del gruppo dirigente.
I comunisti avevano deciso, dopo il 2 giugno, di partecipare al governo (anche per ragioni «istituzionali»: basterà richiamare le scadenze del trattato di pace e della Costituzione), segnalando tuttavia un indubbio elemento di distacco; Togliatti, infatti, non aveva accettato cariche governative, per potersi dedicare con maggiore agio alla guida del partito.
Quanto, tuttavia, questa presenza sia considerata in termini problematici emerge chiaramente nella riunione della direzione del 17 settembre; Longo, in questa occasione, afferma: «Possiamo avere una politica di collaborazione col governo anche rimanendo fuori. Noi partecipiamo al governo per far applicare la parte di programma del nostro partito accettato dal governo e per fare realizzare più che sia possibile di esso». Secchia replica, al contrario «che questo non è il momento di andare alla opposizione. In alcune regioni se noi fossimo all’opposizione il p.[artito] si troverebbe nella illegalità [...]. Nel p.[artito] vi è del “primitivismo”, si pensa che ogni obiettivo [...] dovrebbe realizzarsi non appena viene posto». È una posizione condivisa da molti altri, come Li Causi, il quale sostiene che il partito «deve continuare la sua linea di unità nazionale».
Queste divergenze di opinione, che si manifesteranno più esplicitamente nella sessione del Comitato centrale immediatamente successiva, mettono in luce – anche se l’impostazione di Togliatti, decisamente favorevole alla partecipazione al governo, prevale largamente – gli umori e le tendenze di strati non trascurabili del Pci, preoccupati di un logoramento del partito, e di una sua debolezza (che appare come il prezzo del rapporto con la Dc) nel realizzare il programma di governo. Avendo presenti tali difficoltà, Togliatti aveva lanciato appunto in questo periodo il cosiddetto «nuovo corso» nella politica economica, spingendo il partito a un’azione che sollecitasse «dal basso», attraverso ampi movimenti di lotta sociale, la concreta realizzazione di questo programma. Tuttavia, a prescindere dalle difficoltà che questa politica incontra nell’organizzazione del partito, è il rapido peggiorare della situazione politica che, sostanzialmente, non ne permette un’effettiva attuazione.
Infatti, la questione del governo, risolta in questa occasione, si ripresenterà dopo pochi mesi, già all’inizio dell’anno seguente. Anche se l’espulsione delle sinistre dalla direzione politica del paese avverrà solo nel maggio, possiamo considerare la crisi del gennaio 1947 come un primo tentativo in questo senso, operato da De Gasperi subito dopo il suo viaggio negli Stati Uniti, in un momento in cui, sul piano internazionale, siamo alla vigilia del lancio della «dottrina Truman» (marzo 1947).
Che l’obiettivo del presidente del Consiglio sia già, nella prima crisi, quello di «sbarcare» i comunisti e i socialisti dal governo appare piuttosto evidente, e i comunisti lo rilevano più volte, a chiare lettere, su «l’Unità». Questo intento, tuttavia, viene per il momento frustrato, e la crisi si chiude con una ricostituzione del tripartito che appare al Pci, in termini di «scampato pericolo», come una notevole vittoria. Nella riunione della direzione del 4 febbraio Togliatti, concludendo una sommaria ricostruzione degli avvenimenti, nella quale egli valorizza appunto il successo comunista, affronta il tema delle prospettive politiche affermando: «De Gasperi ha manifestato l’intenzione di fare le elezioni a giugno. Ritiene questo governo come governo di emergenza. Si faranno le elezioni a giugno? Ne dubito. [ ... ] le elezioni si potranno fare a novembre.
«Durerà il governo fino allora? De Gasperi per farlo durare ha chiesto un impegno di solidarietà. Quest’impegno non è un gran che. La nostra libertà di critica resterà presso a poco quella di prima. È chiaro che ormai tutto quello che si fa viene fatto in vista dei comizi elettorali».
Comincia a manifestarsi qui un errore di previsione, su cui occorre richiamare l’attenzione, che non è solo di Togliatti, ma è condiviso da tutto il gruppo dirigente. Le elezioni, infatti, subiranno una proroga dopo l’altra (la data definitiva sarà fissata solo nel febbraio 1948): l’intenzione di De Gasperi è verosimilmente quella di votare dopo aver sbarcato dal governo le sinistre, quando avrà in sostanza tutto il potere nelle sue mani. Tra l’altro, se si tiene presente, oltre a ciò che avviene in Italia, il graduale aggravarsi del clima internazionale, ci si rende conto di quanto questi continui rinvii abbiano contribuito al risultato del 18 aprile.
Ma la discussione più significativa avviene nella riunione della direzione del 5-6 maggio, che precede immediatamente le dimissioni del governo De Gasperi (a questo punto, la crisi appare infatti scontata).
La relazione, dedicata questa volta proprio all’esame della situazione politica, è svolta dallo stesso Togliatti, che riferisce tra l’altro circa il colloquio avuto nella mattinata con De Gasperi: questi gli ha parlato della gravità della situazione finanziaria, e della conseguente necessità «di una concentrazione politica che dia alle diverse categorie di consumatori e produttori italiani la fiducia necessaria per superare la contingenza».
Togliatti, sulla base di questo colloquio, «ritiene di poter escludere che l’on. De Gasperi voglia programmaticamente allontanare il partito comunista dal governo, ma pensa che voglia tentare la formula dell’allargamento con i tecnici [...]. In definitiva si dichiara favorevole all’accettazione dell’inclusione di tecnici nel governo, ma sottolinea l’assoluta necessità che vengano, in pari tempo, assicurati alcuni punti fondamentali nel programma, tali che diano la certezza che il governo non seguirà la linea di una politica liberistica».
Qual è l’opinione dei membri della direzione comunista? La maggioranza concorda con la valutazione di Togliatti: solo alcuni intuiscono e affermano chiaramente che la manovra tende a «sbarcare» i comunisti dal governo. In effetti, l’esame della stampa comunista, durante tutto il tortuoso svolgimento della crisi, conferma questa mancata percezione, un’assenza di consapevolezza per certi aspetti sorprendente, che fa indubbiamente il gioco della Dc.
Il gruppo dirigente del Pci sembra anzi ritenere possibile un governo che non sia presieduto da De Gasperi, e si espone in un aperto appoggio al tentativo di Nitti. Le dichiarazioni di Togliatti in questo periodo, soprattutto dopo i colloqui con De Gasperi, danno sempre l’idea di una soluzione vicina e accettabile per i comunisti: solo alla fine del mese, dopo il fallimento di Orlando, il tono de «l’Unità» cambia. Ma fino all’ultimo, il vertice comunista è propenso a credere in un esito accettabile, e persino a prendere in considerazione un voto di astensione a un governo democristiano monocolore.
Nella riunione della direzione che precede immediatamente la presentazione del nuovo gabinetto alla Costituente, si stenta ancora, in effetti, a prendere pienamente coscienza della gravità di ciò che si è ormai compiuto. Togliatti tiene una breve relazione in tono difensivo, sostenendo che: «neppure in questa occasione [quando fu sollevato l’incidente con Sumner Welles] fu detto chiaramente, anche se tutta l’intonazione di De Gasperi poteva convincere del contrario, che egli intendeva escludere i comunisti dal governo». In questa stessa occasione Spano, appoggiato da Pajetta (ma controbattuto da tutti gli altri), propone che il gruppo comunista si astenga al momento della formazione del nuovo governo. Concludendo il dibattito – che mette in luce toni e atteggiamenti diversi, tra chi considera l’opposizione almeno un’occasione per rafforzare il partito (Colombi), chi addirittura sembra valutaria positivamente (Massola), chi arriva a postulare un governo ancora democristiano, ma senza De Gasperi (Negarville) – Togliatti mostra del resto di non essere ancora convinto che il nuovo ministero andrà in porto, e ritiene comunque necessario operare per un largo fronte parlamentare contro De Gasperi, per un ampio blocco politico che possa far pesare la sua esistenza: «Se il governo riuscisse ad avere la maggioranza, mettere subito avanti i motivi contro di esso, sulla necessità di un controllo sul governo durante le elezioni e su altri motivi di agitazione. Per il momento, quindi, avere la linea di votare contro, conquistando il maggior numero possibile di voti».
Solo nelle settimane successive il Pci prenderà pienamente coscienza dell’entità della sconfitta subita, avviando – con un indubbio ritardo – un ripensamento dell’esperienza governativa e del suo esito deludente, al quale contribuiranno anche le pesanti critiche mosse ai comunisti italiani alla riunione costitutiva del Cominform, nel settembre 1947.
Il dibattito che si svolge in direzione, tra il 7 e il 10 ottobre 1947, sulla fondazione del Cominform e sull’operato della delegazione italiana è di rilevante importanza per una comprensione approfondita di tutta la successiva politica del Pci. Dopo la relazione tenuta da Longo, che prende atto della divisione del mondo in due blocchi e sostiene quindi la necessità di «modificare [...] la nostra linea politica», si apre una discussione che assume in qualche momento toni aspri e risentiti: il primo a prendere la parola è Terracini il quale solleva delle riserve sui poteri della delegazione italiana («Le questioni che sono state poste alla conferenza di Varsavia sono di una tale importanza che solo il Comitato centrale e forse anche il congresso hanno il potere di deciderle [...] i nostri compagni sono andati con una scadente e insufficiente informazione; né, del resto, essi erano stati precedentemente informati del tema e degli scopi della discussione») e infine afferma: «Si va dunque verso un acutizzarsi della situazione; ma se noi cambiassimo oggi, radicalmente, la nostra politica, perderemmo i contatti con gli altri ceti, anche se la classe operaia e i contadini potrebbero temporaneamente rafforzarsi. Qualche correzione si può sempre fare, ma non mi sembra che la nostra politica debba essere sottoposta a profonde modifiche».
La posizione di Terracini – che aveva mosso dei rilievi anche alla politica estera sovietica, anticipando in qualche modo le posizioni espresse qualche giorno dopo nella famosa intervista sulla situazione internazionale – rimarrà del tutto isolata nel dibattito, e anch’egli, alla fine, approverà l’operato della delegazione italiana e i risultati della conferenza del Cominform: eppure, nonostante le critiche di cui sarà oggetto da parte di molti intervenuti, si può osservare che la sua argomentazione è in ultima analisi condivisa, per ciò che riguarda la politica del partito, da tutti i dirigenti di maggior peso. Così, ad esempio, Scoccimarro, pur nell’ambito di un apprezzamento per la fondazione del Cominform che risente esplicitamente di una visione ideologica della situazione internazionale («L’internazionale non è mai stata sciolta nel cuore di ogni comunista e perciò io saluto con entusiasmo la creazione di questo Ufficio») dichiara: «Sono d’accordo che siano stati commessi degli errori, ma non credo che occorra portare oggi un mutamento sostanziale alla nostra linea». La posizione espressa dopo questa affermazione tende quindi ad accettare le critiche dei sovietici, ma entro limiti precisi, senza mettere in discussione la strategia di fondo del Pci; su questa linea, lo sforzo che faranno anche altri intervenuti sarà quello di valorizzare tutti gli elementi di ripensamento e di autocritica già affiorati nei mesi prece denti, subito dopo l’esclusione dal governo, ed esposti in modo particolare nelle lettera inviata il 16 agosto a tutte le organizzazioni di partito dalla direzione.
Accanto a questa impostazione, si manifesta anche un orientamento più «duro», attraverso il quale si esprimono atteggiamenti che giudicano assai probabile uno svolgimento «catastrofico» della situazione internazionale, e di conseguenza si preoccupano di attrezzare il partito per ogni evenienza, ritenendo la lotta parlamentare priva di prospettive. Chi accentua questi aspetti utilizza in genere un lessico accentuatamente ideologico, ribadendo il primato e il ruolo guida dell’Unione Sovietica: così Colombi afferma che il linguaggio di Terracini «mi pare non sia un linguaggio da bolscevico [...] corriamo il pericolo di abdicare alla nostra qualità di militanti bolscevichi che riconoscono nel Partito comunista dell’Unione Sovietica il partito dirigente della classe operaia mondiale [...] dobbiamo, con tutte le nostre forze, impedire che l’Italia diventi una base di partenza per l’imperialismo americano ed a questo scopo occorre portare le masse sul terreno dei grandi scioperi, senza sacrificare alle fortune elettorali la necessità della lotta e del combattimento; occorre cioè vedere se non riusciamo noi a fare ai reazionari quello che essi vorrebbero fare contro di noi».
Si può dire quindi che il dibattito mette di fronte, più chiaramente che in altre occasioni, due schieramenti che mostrano una notevole differenza di vedute, pur convenendo nell’esprimere una critica comune a Terracini (e anche all’operato insufficiente di cui ha dato prova la direzione, e lo stesso Togliatti, nel tradurre in pratica i necessari elementi di correzione già individuati).
La composizione di questi contrasti avviene, nella replica di Longo e nell’intervento conclusivo di Togliatti, su un terreno che accoglie le critiche avanzate, ma senza trarne tutte le implicazioni, spostando piuttosto il discorso sulle insufficienze organizzative del partito e sulla sua difficoltà ad applicare concretamente una linea giusta: un terreno per così dire mediano, che in qualche modo nasconde una contraddizione fondamentale della politica comunista; una contraddizione che vale, tuttavia, a salvaguardare l’unità del gruppo dirigente e del partito.
È infatti proprio l’accoglimento delle critiche mosse all’azione del Pci in Italia, accompagnato da manifestazioni di omaggio e di fedeltà alla politica internazionale dell’Urss, che consente di non mettere sostanzialmente in discussione la strategia di fondo e la scelta del terreno democratico, salvaguardando un margine importante di autonomia: il duro attacco a Terracini – che, per quanto riguarda la situazione interna, come abbiamo notato, non esprime una posizione divergente da quella degli altri membri della direzione – ha anche questa precisa funzione, in parte, strumentale.
Togliatti, in un discorso che pone termine alla discussione con toni difensivi e anche interlocutori («mi pare che [discussione] debba essere considerata come un primo scambio poiché solo così possono giustificarsi alcune incertezze, la mancanza di una linea nuova e gli smarrimenti che qua e là si sono intravisti negli interventi dei compagni») riprende tutta la tematica del partito bolscevico, rincarando la dose contro Terracini e ricordandogli i suoi passati contrasti col partito: ma per quanto riguarda le osservazioni alla politica del Pci espresse dal Cominform, afferma: «La critica, ad ogni modo, non investe tutta la nostra linea; la critica è giusta soprattutto se si tiene conto del modo di sviluppo del nostro partito [Occorre dire al partito che ci sono delle deficienze tali che, se non corrette, non gli permetteranno di fare dei passi in avanti e di resistere con successo agli avvenimenti. Bisogna impostare la critica in modo che non esasperi o scoraggi il partito e la classe operaia e respingere quella che giustamente un compagno ha definito la psicosi delle occasioni perdute».
La riunione si conclude con l’approvazione unanime dell’operato della delegazione italiana alla riunione costitutiva del Cominform, registrando un sostanziale accordo interno (di cui la critica a Terracini è un fattore non trascurabile). Ma, su un diverso piano di analisi, è anche un’occasione importante per comprendere la mentalità e la formazione dei dirigenti comunisti, così come lo sfondo teorico e le contraddizioni della politica comunista.
I verbali costituiscono, come abbiamo visto in riferimento ad alcuni temi politici fondamentali del periodo costituente, un materiale essenziale per comprendere le scelte di fondo del Pci; ma i dibatti ti interni valgono anche come fonte e testimonianza preziosa da un altro punto di vista, consentendoci di investigare efficacemente l’ideologia stessa del gruppo dirigente comunista.
Intendiamo qui per ideologia non l’adesione alla teoria e alla prassi del marxismo-leninismo – a cui, in questi documenti, non troviamo riferimenti – ma l’insieme dei criteri di fondo che guidano, non sempre consapevolmente, il ragionamento politico, condizionando l’attività concreta; le convinzioni fondamentali, cioè – di carattere non solamente teorico, ma piuttosto storico e politico – che sono alla base dell’analisi e dell’interpretazione della realtà italiana e internazionale, dello stesso modo di inquadrare e affrontare i problemi da parte del vertice comunista. Uno sfondo culturale comune, in ultima analisi, che orienta la «lettura» della situazione, costituendo un importante fattore – pur nella delineazione di posizioni e gruppi diversi – dell’elaborazione e della stessa unità politica della direzione.
Si tratta prima di tutto della convinzione – che unifica verosimilmente il partito nel suo complesso, e che occorre tenere ben presente al di là della sua apparente ovvietà – di «avere dalla propria parte il futuro». L’intero gruppo dirigente comunista – cioè, verosimilmente, tutto il partito – appare infatti convinto che lo sviluppo storico ha ormai irreversibilmente condannato il capitalismo e che il socialismo – non dimentichiamo l’impatto straordinario della vitto ria dell’Urss contro le potenze dell’Asse – è destinato a breve scadenza a trionfare.
Possiamo parlare, in questo senso, di un elemento ideologico di tipo inconsapevolmente millenaristico, che prende la forma di una sorta di storicismo deterministico, «razionalmente» sicuro dell’imminente successo del movimento operaio: un fattore di cui oggi è evidentemente difficile comprendere tutta l’importanza, ma che certamente ha giocato un ruolo effettivo e considerevole nell’analisi e nelle impostazione del Pci
Su questa base si spiegano affermazioni che, a cinquant’anni di distanza, possono apparire sorprendentemente ingenue, ma che allora facevano parte del senso comune dei comunisti (e dei socialisti) di tutto il mondo, e che non a caso accompagnano la politica del «nuovo corso» lanciata da Togliatti, come abbiamo visto, dopo il 2 giugno 1946: «La proprietà italiana, se vuole salvarsi, deve rammentare una buona volta che la legge della conservazione intelligente [...] si esprime in questi termini: perdere ogni giorno metodicamente qualcosa per non perdere tutto. Solo così, la conservazione si allea alla storia e può rientrare nello sviluppo della democrazia. Altrimenti perde tutto»
Argomentazioni di questo genere, che costituiscono una sorta di saldo retroterra storico-politico di tutta la strategia del «partito nuovo», se ne potrebbero individuare parecchie, nei documenti e nei discorsi dei leader comunisti. Nei verbali della direzione, pur non espressa in forma così evidente, questa certezza nel futuro si manifesta spesso indirettamente; il riferimento più significativo è forse il richiamo all’Urss, alla sua funzione e alla necessità di non avere esitazioni nel propagandare le conquiste e i traguardi raggiunti dal «paese del socialismo».
È lo stesso Togliatti, in varie occasioni, a rilevare come, su questo piano, gli sforzi del partito appaiano insufficienti, e sia invece opportuno diffondere l’idea della «superiorità del socialismo»; il gran de prestigio internazionale dell’Urss, la potenza mondiale che garantisce con la sua stessa esistenza l’indubitabile vittoria della classe operaia, dev’essere convertito in un’arma di propaganda e di penetrazione nella società italiana, alla quale sarebbe assurdo rinunciare per timore di effetti controproducenti.
Analizzando i risultati del lavoro di partito nella campagna elettorale per le amministrative, il segretario del Pci, nella riunione del la direzione del 9-10 aprile 1946, afferma a questo proposito: «Secondo me vi è una enorme deficienza politica per quello che riguarda la Russia; noi non facciamo propaganda per la Russia, abbiamo paura, ciò è sbagliato perché la gente diventa fredda e pensa che il nostro silenzio vuol dire che quegli altri hanno ragione.
«Occorre quindi fare una propaganda per la Russia sui quotidiani ed anche con del materiale di propaganda [...]. Noi dobbiamo dimostrare la forza della Russia, la possibilità di questo paese, quello che potremmo avere se gli fossimo amici e così via».
Più avanti, dopo aver osservato che occorre controbattere più efficacemente le calunnie contro la Russia, Togliatti propone di utilizzare, a fini propagandistici, «un film sovietico (quello, per esempio, della parata sportiva sulla Piazza Rossa)», e a questo punto lo interrompe Pajetta: «Noi abbiamo pensato che la visione di un tale film possa essere controproducente». Togliatti «Non credo; si tratta di un film che fa vedere come alcune settimane dopo la fine della guerra la Russia ha ripreso la sua attività di pace. Fa vedere lo sviluppo di quella gente, la ricchezza di quel paese; non capisco come debba essere controproducente un film a colori tecnicamente perfetto. Credi che producano qualche cosa i film dei gangsters americani? C’è qui un errore di impostazione politica dei nostri compagni e tale errore bisogna correggerlo».
Così il mito dell’Unione Sovietica (e di Stalin) sarà utilizzato ampiamente nell’opera di acculturazione politica delle masse che il vertice comunista persegue costantemente: in questo mito – vale a dire, in ciò che appariva allora una solida, determinante realtà – si riassumeva in effetti un essenziale punto di forza, nel quale si confondevano, potenziandosi a vicenda, il peso statuale di una grande potenza e un elemento ideologico (la realizzazione del socialismo) che costituiva la legittimazione stessa dell’esistenza e della funzione del Pci.
Il ruolo di tale fattore diverrà ancora maggiore, evidentemente, quando il partito, in concomitanza con l’aggravarsi della situazione internazionale, sarà costretto all’opposizione: allora il punto di riferimento politico costituito dall’Urss – e dai paesi di «democrazia popolare» – assolverà a una funzione decisiva di identità e di forza, fungendo da contrappeso agli avvenimenti interni e «materializzando», per così dire, la speranza nel futuro. Non è un caso, ci sembra, che proprio in questo momento tornino le recriminazioni sulla tiepidezza del partito nel difendere l’Urss e siano a maggior ragione ritenute del tutto inaccettabili le posizioni espresse da Terracini nell’intervista all’international News Service» che abbiamo già ricordato.
Nella riunione della direzione (25 ottobre 1947) che discute proprio questo problema – risolto poi con una sostanziale autocritica di Terracini nel successivo Cc dell’11-13 novembre 1947 – si manifestano contro il presidente dell’Assemblea costituente toni e atteggiamenti molto aspri: assai significativo è il fatto che la posizione di Terracini sia ritenuta del tutto inconcepibile per un comunista, sia cioè connessa immediatamente all’ideologia, e anzi alla stessa unità del partito. Togliatti, introducendo brevemente la riunione, sottolinea infatti che «non è assolutamente possibile che i membri della direzione non condividano la linea politica del partito». E Giuliano Pajetta si collega nel suo intervento a questa affermazione, con parole che richiamano l’eco della tradizione cominternista: «Le spiegazioni date oggi da Terracini non vanno. Come si può lottare per l’unità ideologica del partito quando le divergenze si verificano anche in seno alla direzione? [...]. Ritengo che la direzione non possa accontentarsi, come l’opinione pubblica, della smentita e della rettifica di Terracini. Tutto il partito sa delle discussioni che si sono avute con Terracini e chiede, secondo me giustamente, spiegazioni esaurienti».
La critica all’Unione Sovietica è così ritenuta un elemento di dissenso politico-ideologico intollerabile, fino a suggerire che questa stessa critica possa essere la spia di un dissenso relativo a tutta la linea del partito; Reale dirà infatti, nel suo intervento: «Sono d’accordo nel considerare assai grave l’intervista di Terracini; gravi e insoddisfacenti sono, del resto, le sue giustificazioni. Io ritengo che Terracini non sia d’accordo su tutta la nostra linea e in particolare non è d’accordo sulle decisioni di Varsavia». E Sereni, assente alla riunione, scrive dell’atteggiamento di Terracini, in una lettera inviata su questo tema alla segreteria come di un’«effettiva opposizione alle decisioni della direzione».
Così, l’ideologia del Pci individua nell’Urss – l’espressione tangibile della certezza nella vittoria della classe operaia – un primo, essenziale elemento costitutivo, ben più importante e significativo dell’ossequio formale al marxismo-leninismo, ripetuto in qualche rara occasione in modo piuttosto liturgico (e che fa parte di un armamentario teorico, sostanzialmente esteriore) La fedeltà all’Urss come «paese del socialismo» – anche se non come modello di socialismo; ancora nella relazione ai VI Congresso (gennaio 1948) Togliatti parlerà infatti di una «via italiana», formula che aveva già usato al la Conferenza di organizzazione tenuta a Firenze nel gennaio 1947 – indica d’altronde il primato della politica «realistica» (che privilegia i rapporti di forza, il valore e il peso delle istituzioni, la potenza statuale) nella impostazione generale del Pci, e non solo sui piano della politica internazionale. La medesima impostazione guida infatti l’attività del «partito nuovo» nella situazione italiana: qui, parlando di ideologia, dovremmo parlare più precisamente di principi di analisi politica, di teoria e pratica del «partito nuovo», e soprattutto – a nostro parere – dell’elaborazione dell’esperienza del passato, per cercare di comprendere le connessioni e il grado complessivo di coerenza di questi diversi piani.
I verbali della direzione offrono, per un esame di questo tipo, indicazioni e materiali importanti, che vanno dai richiami espliciti alle «lezioni» della storia più recente, ai frammenti di analisi e di interpretazione della realtà italiana che sostengono determinate scelte, al linguaggio stesso usato nelle discussioni, che presenta oscillazioni e mutamenti assai significativi e registra, dopo la costituzione del Cominform – un avvenimento che «periodizza» indubbiamente la storia del Pci, approfondendo l’elemento di svolta costituito dalla crisi del maggio 1947 – una evidente, maggiore permeabilità alle formule della tradizione comunista (così, in qualche occasione, Togliatti definisce di «fronte popolare» la politica nei confronti degli altri partiti democratici, mentre la «democrazia progressiva» si identifica talvolta con la «democrazia popolare», ecc.). D’altronde, il primato del realismo politico che salda, in ultima analisi, i vari livelli di attività e di consapevolezza del Pci, componendoli in una strategia unificante, discende dallo stesso atto di nascita del «partito nuovo», che si può individuare nella «svolta di Salerno»: un effettivo «compromesso storico» che implica anche, a ben vedere, un accordo preciso sul terreno della continuità dello Stato-apparato, dello Stato-amministrazione, mentre stabilisce, nello stesso tempo, il predominio dei parti ti nella fondazione del futuro Stato democratico.
La «svolta di Salerno» rappresenta però anche l’ultima espressione della politica dei «fronti popolari» adottata al VII Congresso del l’Internazionale comunista: già nella genesi, quindi, di un rinnovamento straordinario del partito comunista, è presente un fattore di continuità, di richiamo alla tradizione. Questi due elementi non cessano di agire nel periodo costituente, disponendosi in una sorta di originale equilibrio, e, mentre ancorano l’azione del «partito nuovo» a un’analisi in ogni momento realistica e spregiudicata della situazione, ne condizionano nello stesso tempo, almeno in parte, gli sviluppi e le prospettive, mantenendo in un ambito oggettivamente determinato la sua libertà di movimento.
Nei dibattiti della direzione, questa sorta di premessa originaria, di limite costitutivo non espresso, appare molto evidente per la stessa relativa assenza di un preciso esame della situazione economico-sociale dell’Italia; i frammenti di ricerca e di interpretazione che sono reperibili nei verbali appaiono largamente condizionati dall’analisi politica in senso stretto, dalla considerazione delle forze in campo e delle alleanze possibili, e infine dalle opportunità del momento, che guidano le scelte del partito anche sui terreno più immediato delle lotte sociali e delle rivendicazioni economiche.
Nella riunione del 16-18 aprile 1947, dedicata alla «Politica e all’azione del partito nella situazione presente» (la relazione è tenuta da Longo), Togliatti esprimerà nel modo più esplicito questa impostazione, affermando: «Noi facciamo una politica di alleanza di classi, questa è la verità; la nostra politica di fronte popolare, di unità nazionale, di collaborazione con tutte le forze che vogliono dare un contributo positivo alla ricostruzione del paese nell’interesse di tutta la nazione e non di pochi gruppi privilegiati, è effettivamente una politica di alleanza di classi. Da questa politica ricaviamo determinate conseguenze nel campo politico; essa ci porta a compiere determinati atti, a dare determinati voti in Parlamento, a contenere determinate campagne, a limitare lo slancio aggressivo delle masse in determinati momenti per non compromettere i risultati che vogliamo ottenere e cioè di realizzare una alleanza politica ed anche di classe con quelle forze che possono essere nostre alleate nella lotta per raggiungere determinati obiettivi fondamentali».
Ma, aggiunge subito dopo il segretario del Pci, questo non deve farci dimenticare le leggi della lotta di classe che agiscono nel paese, in una «società capitalistica in sfacelo, in decomposizione in conseguenza della guerra e di tutte le altre cose e nella quale i vecchi gruppi dirigenti capitalistici conducono una lotta disperata per non perdere le loro posizioni» (qui si manifesta, con evidenza, quello storicismo deterministico che abbiamo richiamato a proposito della fiducia del gruppo dirigente nell’ineluttabilità del socialismo). Togliatti rileva appunto che le necessità politiche concrete possono indurre a falsare l’analisi della realtà, possono cioè dissimulare l’acutezza dello scontro sociale, introducendo nelle file comuniste una visione della situazione inconsapevolmente deformata: e non a caso questo avvertimento si iscrive in un periodo in cui l’aggravarsi del contesto internazionale fa credere in un imminente pericolo di guerra (e di repressione anticomunista).
Nelle parole del segretario generale del Pci colto appunto un dato generale, riscontrabile agevolmente nei dibattiti precedenti; in effetti, la «lettura» e l’interpretazione della realtà italiana non solo risente dell’impostazione politica generale del partito nuovo ma, in una certa misura, ne fa parte in termini subalterni, la giustifica. Potremmo dire che il gruppo dirigente del Pci, in questo senso, elabora e realizza una strategia in cui l’assenza di schemi politici rigidamente ideologici (nel senso ph tradizionale del termine), ovvero il suo stesso spregiudicato realismo, ottunde in parte la visione delle cose, stimolando ad esempio una relativa fiducia nella Dc che non troverà riscontro nei fatti.
Ciò avviene anche per i condizionamenti inevitabili connessi al più «potente» strumento d’analisi e di conoscenza concreta della realtà italiana che il gruppo dirigente ha a disposizione: cioè lo stesso partito, con la sua organizzazione ramificata e in rapida espansione, e con il rapporto privilegiato – ma anche, evidentemente, parziale – che stabilisce nei confronti di precisi strati e gruppi sociali (i mezzadri dell’Italia centrale, i forti nuclei operai dei centri settentrionali, ecc.).
E infatti il «partito nuovo» uno dei temi centrali di questi verbali, in un doppio senso: da un lato in quanto esplicito oggetto delle cure del vertice, destinatario di messaggi e di indicazioni che devono tradursi efficacemente in pratica per realizzare la politica comunista; dall’altro in quanto organismo in crescita che «si fa sentire», più o meno direttamente e consapevolmente, attraverso le esigenze e le tensioni espresse dalle migliaia dei suoi iscritti, il loro senso comune e la loro ideologia (su cui sarebbe necessario fare un discorso a par te) così come attraverso le richieste e le manovre dell’apparato. In fatti, l’aderenza del «partito nuovo» – il più grande dei partiti di massa italiani – alla società nazionale, mentre trasmette impulsi, correnti, percezioni collettive, e funziona da tramite, da canale privilegiato, tra il paese e il gruppo dirigente, costringe quest’ultimo anche a «venire a patti» con una realtà politicamente e culturalmente più arretrata, che potrà essere modificata solo gradualmente.
Ciò costituisce evidentemente un punto da tener presente per impostare su basi più corrette il tema già citato della «doppiezza», che rimanda non solo ai differenti piani e livelli di consapevolezza e di esperienza politica presenti nel Pci – un fenomeno inevitabile in qualunque organismo complesso, e certamente acuito, in questi anni, dalla tumultuosa rapidità di crescita degli iscritti – ma anche alla diversità dei relativi tempi di mutamento e di sviluppo. La stessa complessità del «partito nuovo» – che è, nello stesso tempo, ideologia, apparato, strategia, soggettività collettiva ed altre cose ancora – rende infatti problematica e non lineare la relazione dinamica tra i diversi tempi di sviluppo interno: l’ideologia non «si muove» con io stesso ritmo delle esperienze politiche concrete, e queste, che posso no essere considerate il fattore essenziale di sviluppo del partito, non provocano certo un immediato adeguamento della struttura organizzativa, più rigida e di conseguenza più lenta (e si potrebbe continuare). Cosi, la sfasatura tra questi diversi piani, di cui la cosiddetta «doppiezza» dà conto solo in termini deformati e riduttivi, appare all’origine di molti elementi di ambiguità e di incertezza: come il mancato adeguamento, che il vertice non tralascia di criticare, dell’azione pratica alla linea elaborata, o, viceversa, l’espressione di tendenze e manifestazioni contrarie alla strategia del partito.
La scelta del partito di massa – riprendiamo il filo più puntuale del nostro discorso – si traduce infatti, concretamente, nella larga adesione di categorie omogenee, unificate da medesime condizioni di vita e di lavoro, che costituiscono una base di fronte alla quale il gruppo dirigente si mostra consapevolmente responsabile; si tratta prima di tutto di sviluppare il carattere «realizzatore» del partito, di conseguire cioè dei risultati positivi, concreti, anche sul piano economico, per evitare la possibilità di esplosioni sociali incontrollabili Togliatti, osservando l’importanza di questo terreno di intervento, mette in luce acutamente la maggiore capacità dell’organizzazione comunista nel capeggiare e promuovere agitazioni per obietti vi immediati (manifestazioni di disoccupati, cortei e proteste contro il carovita, ecc.) rispetto a quella di individuare e imporre soluzioni per i problemi di fondo, rilevando i pericoli che possono derivarne in situazioni determinate. Affrontando le condizioni dei braccianti del Polesine, che vivono in condizioni miserevoli e senza prospetti ve di miglioramento, il segretario del Pci afferma a questo proposito (verbale del 16-18 aprile 1947): «Quando chiedi a quei compagni: “Qual è la prospettiva che voi avete? Cosa avverrà qui, fra un anno?”. I compagni più intelligenti ti dicono: “Se il partito, fra un anno, non avrà il pugno duro, qui scoppia tutto perché la gente non può andare avanti”; e pensate che lì vi sono dei casi di sommossa dei braccianti che vorrebbero far saltare gli argini del Po; voi capite che vuoi dire una cosa simile; non è solo l’interruzione del traffico sulla via Emilia, ma la cosa è più grave; lì vi è un problema di riforma agraria, di investimenti di capitali, di trasformazione di culture».
Il passaggio fondamentale che il «partito nuovo» deve compiere, per innovare effettivamente la prassi tradizionale, consiste quindi nel passare dalla propaganda e dall’agitazione alla capacità di intervenire nei fatti, di realizzare soluzioni effettive per i problemi sociali. È chiaro invece che l’ideologia più popolare alla base del Pci è quella della lotta rivendicativa immediata, delle agitazioni sociali di protesta, di una combattività diffusa ma non sempre incisiva e intelligente, in cui si esprime – sulla base delle reali difficoltà della situazione – tutto il peso di un antico ribellismo.
Si tratta allora di contemperare esigenze diverse e in parte contraddittorie che si riflettono, nei verbali, in una lettura delle condizioni economiche-sociali dell’Italia che, mentre individua l’arretratezza di aree importanti del paese (i residui latifondistici nel Mezzogiorno), non è del tutto priva di orientamenti più moderni. Così Togliatti, esponendo dopo il 2 giugno 1946 il «nuovo corso», si rifà a un’impostazione esplicitamente keynesiana, nella quale si riflette un’analisi che ha come punti di riferimento l’esperienza di paesi più avanzati, come l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Appare piuttosto come limite, su questo piano, la «dipendenza» dai movimenti sociali che si delineano spontaneamente nel paese che evidenzia come la preoccupazione di controllare e indirizzare le lotte dei lavoratori prevalga spesso su considerazioni più profonde.
Da questa esigenza deriva la particolare attenzione del vertice comunista ai problemi del sindacato, in un periodo in cui quest’ultimo presenta una debolezza organizzativa notevole, che spinge Di Vittorio a chiedere a più riprese un aiuto in termini di quadri e di sostegno politico. La sensibilità di Togliatti per lo sviluppo del sindacato, e per le sue specifiche esigenze, appare, nei dibattiti della direzione, superiore a quella degli altri membri, che su temi particolari – come lo sblocco dei licenziamenti – manifestano chiaramente un atteggiamento di immediata tutela «politica» dei lavoratori, non sempre in accordo con le misure economiche ritenute, dallo stesso Di Vittorio, indispensabili.
In generale, del resto, proprio sul piano delle misure economiche, la situazione non si presenta certo favorevole per i comunisti, soprattutto perché i partiti moderati hanno la possibilità di far giocare a loro vantaggio l’arma del ricatto politico: l’esempio classico è quello del mancato cambio della moneta. Infatti, di fronte alla minaccia di un ulteriore rinvio della Costituente, il Pci rinuncia a irrigidirsi sulla questione del cambio, abbandonando di fatto, nella riunione del Consiglio dei ministri dell’il gennaio 1946, questa richiesta (sulla quale aveva particolarmente insistito, anche in sede di partito, Scoccimarro, allora ministro delle Finanze).
Non è questa, tuttavia, l’unica ragione dell’atteggiamento comunista: soprattutto Togliatti – come ammetterà in seguito – ritiene che il cambio della moneta sia una misura sgradita alle masse conta dine, verso le quali il «partito nuovo» si sforzava di realizzare una politica di alleanza. Tanto è vero che il Pci non chiederà l’inserimento di questa misura nel programma del secondo governo De Gasperi, e neanche nel «nuovo corso economico» lanciato nella seconda metà del 1946. Nel terzo gabinetto De Gasperi, i comunisti perderanno inoltre il ministero delle Finanze (accorpato con quello del Tesoro e affidato a Campilli), nonostante che Scoccimarro avesse minacciato, in questo caso, un ritiro del Pci dal governo. Invece, il rospo viene ingoiato, per salvaguardare – al di là degli obiettivi economici perseguiti – la formula del tripartito.
Anche per queste intrinseche motivazioni di opportunità politica, non si discute troppo dell’economia italiana nelle riunioni della direzione, e nemmeno delle modalità della ricostruzione: i problemi economici valgono soprattutto nel loro significato politico, o in riferimento a determinati movimenti di lotta Questo indubbio condizionamento, recato dallo stesso imponente organismo di un partito di massa in tumultuoso sviluppo, non impedisce comunque che si discuta approfonditamente delle prospettive economiche almeno in un’occasione, cioè nella riunione – già citata più volte – del 16-18 aprile 1947. Longo, introducendo la discussione, affronta il tema del prestito finanziario degli Stati Uniti all’Italia, e della possibilità di mantenere l’alleanza con la Dc riuscendo nello stesso tempo a conseguire dei risultati concreti sul piano di una ricostruzione «progressiva», che tuteli i ceti più disagiati e preveda una qualche forma di intervento dello stato nell’economia. In questa occasione – che ha luogo quando è già nell’aria la crisi che escluderà le sinistre dal governo – il gruppo dirigente dà vita un dibattito in cui il realismo politico ed economico trovano probabilmente, in un reciproco equilibrio, la loro espressione più avanzata, e il punto estremo di elaborazione.
Longo si dichiara a favore del prestito internazionale all’Italia, manifestando una spregiudicatezza che non sarà reiterata, in condizioni politiche nazionali e internazionali mutate, di fronte al successivo piano Marshall: «Se noi comunisti facciamo nostra una politica che tenga conto della necessità e delle condizioni per cui è possibile avere dei prestiti, io credo che noi non saremmo di ostacolo – anche se fossimo dirigenti del governo – per avere questi prestiti; cade quindi ciò che si cerca di fare apparire sui giornali e cioè che una possibilità di collaborazione economica si può avere solo escludendo i comunisti dal governo. [...] la finanza internazionale, oltre a perseguire degli scopi politici, persegue anche degli scopi economici ed una nostra politica favorevole dovrebbe smontare il buon gioco che essa finanza ha oggi dicendo che occorre eliminare noi dal governo perché essa possa addivenire ad una collaborazione economica». Longo propone quindi: «nel campo della ricostruzione: prestito; nel capo della produzione: assicurare allo Stato leve di comando economiche (nazionalizzazioni, riforma dell’Iri); nel campo dell’alimentazione: assicurare l’indispensabile ai lavoratori e alla povera gente».
Il dibattito che segue si presenta di fondamentale importanza per cogliere, in un momento cruciale, l’ideologia del gruppo dirigente cioè, appunto, la sua valutazione complessiva della situazione, i criteri di analisi della realtà, i limiti soggettivi della percezione politica. Pur essendo costante il riferimento alle questioni economiche – che, come in tutti i momenti di crisi effettiva, assumono un peso assai rilevante, se non decisivo – la sostanza riguarda infatti la prospettiva che il «partito nuovo» ha davanti a sé sulla quale si manifestano differenziazioni e divergenze non secondarie. E, in questo quadro, colpisce ancora una valutazione della politica democristiana – presente in molti interventi – che denota un’evidente mancanza di analisi critica. Cosi Sereni afferma: «Il problema politico che nasce è questo: il prestito estero si farà contro di noi o con noi? E qui si inquadra il problema della situazione politica generale [...] È mia impressione che De Gasperi si renda conto che senza i comunisti al governo egli non può restare [...]. Io credo che De Gasperi comprenda che una politica apertamente reazionaria non giova a lui e che la Dc si liquiderebbe, in un processo di questo genere».
A questa considerazione positiva si contrappone apertamente Colombi, affrontando il problema nei suoi termini politici di fondo: «vi è nella nostra prospettiva una possibilità di accordo con la Democrazia cristiana? Fin dove è possibile, a noi, continuare una politica di accordi con la Dc su delle basi che ci portino al compimento delle riforme strutturali e soprattutto ci portino a venire in contro ai bisogni delle masse?». Per Colombi, questa domanda è retorica: «io non penso che la Dc marcerà a fondo sulla nazionalizzazione, non penso che essa, nella condizione in cui è oggi, accetterà di fare una politica tendente a far pagare veramente alle vecchie classi dirigenti, io non penso che si possa fare affermare il concetto che l’Iri diventi uno strumento della politica economica del governo fino a che la Dc è partito dirigente del governo».
Tuttavia, nel dibattito questo problema rimane sullo sfondo, «dietro» i temi economici. Così il verbale ci fornisce una documentazione preziosa anche dei punti-limite, dei capisaldi economici sui quali, dopo tre anni di deludente collaborazione governativa, i comunisti non possono cedere, che sono sostanzialmente – nelle parole di Togliatti, poi riprese da altri e, nelle conclusioni, da Longo – due: le nazionalizzazioni (in particolare quella dell’industria elettrica), e la salvaguardia (previo risanamento) dell’Iri. Si tratta di una posizione che esprime compiutamente, ci sembra, una tradizione ideologica che viene da lontano (le nazionalizzazioni costituiscono la rivendicazione classica del movimento operaio di ispirazione socialista) e, nello stesso tempo, una impostazione più moderna, tesa a garantire l’intervento dello Stato nell’economia.
Queste misure si collegano evidentemente alla prospettiva della continuazione della presenza del Pci al governo, che viene ritenuta ancora più necessaria in un momento in cui la lotta di classe si sviluppa acutamente nel paese. Lo stesso Togliatti, prevenendo possibili critiche alla contradditorietà di questa posizione, sostiene la necessità di non mutare la linea politica del partito, ma di riuscire a coniugare la maggiore spregiudicatezza nell’analisi con una maggiore spregiudicatezza nella politica concreta. E una visione indubbiamente difficile da realizzare, che individua per la prima volta l’economia come un terreno su cui intervenire direttamente e postula l’acquisizione degli strumenti necessari per sviluppare una reale capacità di governo, per operare progressive trasformazioni.
Questo sforzo – che assume criticamente, potremmo dire in extremis, anche la lezione ricavata dall’esperienza governativa – è espresso efficacemente da Longo nell’intervento conclusivo: «Come possiamo intervenire nella direzione economica? Soltanto con delle misure politiche o anche con delle misure economiche? Le misure politiche non bastano e noi dobbiamo mettere in condizioni le forze democratiche dirigenti dello Stato di intervenire anche economicamente, come l’industria elettrica, l’Iri. [...] tutto il nostro piano ha un senso, anche economicamente, se noi ci assicuriamo quelle leve sufficienti per potere agire». Torna in questo senso l’idea di un piano che colleghi le questioni immediate a quelle generali e che consenta la mobilitazione dei ceti popolari e medi anche degli altri partiti, per evitare l’isolamento dei comunisti, in un’impostazione che richiama tentativi già esperiti senza successo, come il «nuovo corso». Una visione che deve fare i conti, prima di tutto, con i limiti stessi dell’organizzazione e della tradizione del «partito nuovo» su cui ci siamo già soffermati e che, in questa stessa occasione, sono di nuovo messi in luce da Togliatti.
Poiché la preoccupazione fondamentale dei dirigenti è quella di superare il «primitivismo» e l’estremismo del partito, che si esprime in molti episodi riferiti nelle riunioni della direzione, un notevole impegno è rivolto all’attività di formazione degli iscritti e a un’attenta politica dei quadri, perché l’organizzazione riesca ad assolvere i compiti politici fondamentali, soprattutto in riferimento ai ceti medi e al rapporto con i socialisti e i cattolici, i due partiti con i quali il Pci persegue un’alleanza di lungo periodo.
Le difficoltà non vengono nascoste, e le critiche che il vertice comunista rivolge alle organizzazioni locali sono reiterate con precisione, a testimonianza di quanto arduo fosse un lavoro di «acculturazione» diretto a masse di lavoratori uscite dal periodo fascista in uno stato di diffuso analfabetismo politico. Ma il limite di fondo è significativamente individuato nella stessa composizione sociale del Pci, che rende difficile il perseguimento della politica di conquista e di alleanza coi ceti medi. Secchia, nella relazione sui risultati delle elezioni amministrative, afferma a questo proposito (verbale del 9-10 aprile 1946): «Queste elezioni hanno rivelato chiaramente che il nostro partito è ancora essenzialmente il partito degli operai e dei braccianti e non è ancora il partito nuovo che volevamo creare, cioè un partito che possa avere un’influenza che vada al di là degli operai e dei salariati. Quasi dappertutto abbiamo scarsissima influenza tra gli intellettuali, i commercianti e i bottegai».
E ancora su questo tema, in una lettera (15 aprile 1946) che la direzione invia a tutti i segretari federali – nella quale si prendono di mira le maggiori carenze rivelate nella campagna elettorale dall’organizzazione del partito – si dice: «Il problema dei ceti medi e degli intellettuali non è ancora uscito, per molte nostre organizzazioni, dallo stadio della impostazione: si scrivono articoli su di esso, si tengono discorsi e conferenze, ma non si vedono le iniziative concrete per la difesa di questi gruppi sociali [...]. In parecchie organizzazioni nostre è ancora tenace l’atteggiamento ostile o di diffidenza verso i ceti medi urbani e soprattutto verso gli intellettuali, atteggiamento che deve al più presto scomparire»
Più avanti, si critica la spontaneità dimostrata nel lavoro di partito, riaffermando il dovere di ogni iscritto di impegnarsi individualmente, e soprattutto si condanna il fenomeno dell’indisciplina, che ripropone ancora la questione del «primitivismo». Lo sforzo del gruppo dirigente non si limita, su questo piano, a lottare contro le velleità insurrezionali, ma si inserisce in un’opera complessiva di formazione democratica che cerca di introdurre un costume interno lontano da «caporalismi» e da autoritarismi, mirando nello stesso tempo a un sostanziale controllo, a una guida in termini positivi, delle più acute tensioni sociali.
Lo sviluppo di un grande partito di massa non permette del resto una direzione troppo autoritaria e burocratica: e anche se in effetti i fenomeni di autoritarismo e di burocratismo appaiono tutt’altro che rari, il vertice del partito è ben consapevole che non si può gestire un organismo complesso e articolato, inquadrato da un numeroso apparato con gli stessi metodi con i quali si gestiva negli anni Venti il Partito comunista d’Italia, e si adopera quindi per formare ed educare rapidamente migliaia e migliaia di quadri, con iniziative che vanno dalle scuole di partito, all’utilizzazione della stampa, alle conferenze che molte federazioni organizzano settimanalmente, sull’esempio di quella di Roma.
Nello stesso tempo, occorre adeguarsi, nel lavoro di agitazione e propaganda, al livello e alle caratteristiche della base sociale del Pci: Togliatti è molto attento a questi aspetti concreti dell’attività del «partito nuovo», sino a indicare precisamente i termini e le modalità più efficaci della propaganda: «Il partito va avanti con opuscoli pesanti, non accessibili alle grandi masse. – afferma nella riunione del 14, 16, 18 febbraio 1946, dedicata alla propaganda per le imminenti elezioni amministrative. – L’errore che fate è di fidarvi su Spinella, su Onofri ... Essi sono degli intellettuali, dai quali è alieno lo spirito della propaganda elettorale; dovete farvi fare, e discutere, un manifesto, da Di Vittorio, da Longo, da Scoccimarro, da Amendola, ecc. Non si tratta di mettere giù molte pagine e gli argomenti che trattano quelli non servono; occorre della roba molto più viva, di poche pagine, che possa essere letta in dieci minuti. Questo, secondo me, è il punto più grave di deficienza della nostra azione elettorale»
Così il superamento del «primitivismo» – che si rivela nelle posizioni settarie, nella sottovalutazione della conquista dei ceti medi, nell’esibizione di atteggiamenti grossolanamente rivoluzionari, nel l’indulgenza verso atti di intimidazione e di violenza, ecc. – è affidato a una molteplicità di mezzi e di iniziative, di cui fa parte anche una propaganda più semplice, che servirà a popolarizzare meglio la politica del partito, consentendo alle organizzazioni periferiche un effettivo contatto con le masse popolari.
La preoccupazione del gruppo dirigente – in relazione alle spinte «massimalistiche» ed estremistiche diffuse nel partito – di non ripetere gli errori commessi dal movimento operaio nel primo dopo guerra, non dev’essere d’altronde intesa solo in termini ristretti, ma si collega a una visione più ampia. Quella esperienza riveste infatti un carattere generale, paradigmatico, come mostrano i frequenti riferimenti contenuti nei verbali, che arrivano talvolta a istituire analogie o termini di confronto palesemente discutibili, ma proprio per questo assai indicativi (Secchia, analizzando i risultati delle elezioni amministrative, illustra addirittura, per ogni località, il raffronto con quelle del 1920).
Allo stesso modo, la necessità di conquistare i ceti medi deriva esplicitamente dall’analisi del «biennio rosso» elaborata in modo particolare nelle Lezioni sul fascismo di Togliatti (1935)56; persino gli elementi della tattica elettorale, di cui la direzione comunista discute in varie occasioni, sono ricollegati, in molti interventi, all’esperienza dei «blocchi» realizzati nel 1914 e nel 1920, così come la valutazione delle caratteristiche e delle ambiguità della Dc sottintende un richiamo all’esperienza del partito popolare: si pensa che i cattolici non vorranno ripetere quella politica di divisione delle forze popolari e di collusione coi fascismo che aveva contribuito alla crisi dello Stato liberale.
Così, le categorie storico-politiche fondamentali usate dalla direzione nel periodo costituente hanno un retroterra comune, costituito dallo svolgimento e dall’esito della crisi del primo dopoguerra, che si era risolta nella sconfitta del movimento operaio e nella messa al bando per vent’anni dei comunisti e di tutti gli altri partiti – dal la vita politica nazionale. Quella vicenda aveva mostrato con evidenza la vocazione antidemocratica della classe dominante, la tradizione conservatrice dello Stato, la «presa» di correnti reazionarie anche su strati popolari: il successo ottenuto con la Resistenza e la liquidazione del fascismo non poteva certo far dimenticare il prezzo pagato per gli errori precedenti, né il pericolo, sempre presente, che si riproducesse una situazione di crisi della rinata democrazia.
Di qui scaturisce l’ideologia forse più vera e sentita del gruppo dirigente comunista nel periodo costituente, che possiamo riassumere nel termine di antifascismo: una sorta di sistematizzazione e teorizzazione delle esperienze del passato, o meglio, delle lezioni che ne erano state ricavate. Una visione che condiziona anche l’analisi dell’economia e della società italiana, conferendo una particolare attenzione ai fattori sociali tradizionali piuttosto che ai più moderni fenomeni – del resto, in quegli anni, ancora embrionali – di sviluppo del capitalismo italiano. L’antifascismo appare in effetti, sulla base dei successi raggiunti nel periodo 1943-47, una concezione politico- ideologica complessiva che caratterizza la nascita del «partito nuovo», contribuendo in modo decisivo a fondarne stabilmente l’identità più profonda.
All’interno della direzione comunista, sulla base di questo comune sentire, si manifesta una sostanziale unità, che è certo tra i fattori di maggior forza e prestigio del partito. Ciò non toglie – come abbiamo notato in qualche occasione – che si possano distinguere, attraverso un attento esame delle varie posizioni, opinioni e atteggia menti differenziati, che uniscono, talvolta assai significativamente, varie personalità.
Se si volesse fare una distinzione sommaria (che è forse l’unica permessa, senza forzature, dalla documentazione) potremmo osservare che su molti temi decisivi – dall’organizzazione di partito ai rapporti coi socialisti, dal tema delle agitazioni operaie a quello del governo – si delineano spesso divergenze significative tra personalità più intransigenti, come Colombi, Roasio, Teresa Noce, Pesenti, che appaiono più inclini a dar prova di combattività e di durezza, e dirigenti di maggiore elasticità e prudenza, come Amendola, Negarville, Novella. Tuttavia, queste differenze non raggiungono mai il livello di una vera lotta politica, anche per l’abilità e il riconosciuto prestigio di Togliatti. In effetti l’unità non è conseguita in modo meccani CO O esteriore, ma appare come il risultato di una dialettica intensa, che mette in luce un importante dato di fondo: la presenza di molte spiccate individualità, di un ricchezza intellettuale e politica assai rara.
Il segretario generale del Pci svolge un’azione pedagogica, possiamo dire, anche all’interno della direzione, riaffermando in ogni mo mento la validità della linea di fondo del partito, e riuscendo a manovrare con abilità di fronte alle disillusioni governative ed elettorali del 1946-47 La sua funzione appare effettivamente centrale anche nell’influenzare e guidare i dirigenti più autorevoli e più vicini a lui, cioè Longo e Secchia. Così, se volessimo definire più precisa mente il gruppo dirigente, senza identificarlo – come abbiamo fatto sinora – con tutta la direzione del Pci, dovremmo individuarlo in queste tre maggiori personalità, di cui i verbali mostrano appieno le capacità di elaborazione e di direzione. Sono questi tre uomini il nucleo dirigente del Pci nel periodo costituente, gli artefici principali del primo compromesso storico.
La storia del Pci è prima di tutto costituita dalle sue concrete esperienze politiche, e dalla loro successiva elaborazione e incorporazione in una linea strategica: attraverso questi verbali, possiamo allora non solo apprezzare il peso delle lezioni del passato sulle scelte del presente, ma anche osservare la genesi di un nuovo paradigma, che si afferma nel periodo costituente sulla base del conseguimento di quella funzione nazionale che il «partito nuovo» seppe assolvere nel momento stesso in cui si formava.
Questa esperienza, che segna la genesi stessa del partito comunista di massa, facendone un soggetto determinante della vita politica italiana, non cesserà di agire nei decenni seguenti come un punto di riferimento essenziale, trovando il suo sviluppo più compiuto nella proposta del compromesso storico, e nella politica di unità nazionale degli anni 1976-1979: un tentativo di riprendere il cammino unita rio interrotto nel 1947, che si concluderà con una sconfitta politica dalle conseguenze imprevedibili. Dal fallimento di questa esperienza infatti, prenderà le mosse la vicenda più recente e travagliata del Pci, sboccata nella formazione di un nuovo partito.
Ma il discorso, su questo tema, ci porterebbe troppo lontano dal corretto ambito del nostro lavoro, limitato in questa sede alle suggestioni e agli spunti più immediati offerti dalla documentazione raccolta. La nostra introduzione finisce qui, consegnando al lettore e allo studioso uno strumento la cui utilità per la comprensione del passato (e del presente) non ha bisogno di essere ancora sottolineata.
Al termine della nostra fatica, ci è grato ringraziare prima di tutto Giuseppe Vacca, che ha voluto ospitare la presente pubblicazione negli «Annali» della Fondazione Istituto Gramsci, della quale è direttore. La nostra sincera gratitudine va inoltre a Fabrizio Zitelli e Marcello Forti, curatori dell’Archivio del Pci, per la disponibilità e la competenza dimostrate nel corso delle ricerche necessarie, e a Gastone Gensini, responsabile dell’archivio della direzione del Pds, per le molte indicazioni e informazioni con le quali ha seguito valida mente il lavoro. Non possiamo dimenticare, infine, il personale della Fondazione Istituto Gramsci, che ha collaborato a rendere più agevole il nostro compito in molti modi, meritando anch’esso la nostra riconoscenza.
 
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