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                         Prefazione 
                          di Roberto Gualtieri e José Luis 
                          Rhi-Sausi 
                           
                            La dialettica 
                          tra sfide e opportunità, tra repentine trasformazioni 
                          del quadro economico e politico interno e internazionale 
                          e rilancio del processo di integrazione ha accompagnato 
                          fin dalle origini la storia della costruzione europea 
                          e le sue 
                          tappe fondamentali (basti pensare allo stretto nesso 
                          che ha legato 
                          tra loro il Piano Schuman, il Piano Marshall e lo scoppio 
                          della guerra fredda; la costruzione del Mercato comune, 
                          Suez 
                          e la decolonizzazione, la stabilizzazione del bipolarismo; 
                          Maastricht 
                          e l’89). Con la chiusura del primo decennio del 
                          nuovo 
                          secolo tale dialettica appare particolarmente stringente. 
                          Da un 
                          lato, infatti, assistiamo all’esplosione della 
                          più grande crisi economica 
                          e finanziaria del dopoguerra, che, al di là delle 
                          dinamiche 
                          interne al sistema finanziario che l’hanno innescata, 
                          è il 
                          precipitato dell’erosione, che durava da tempo, 
                          di equilibri decennali 
                          tra aree del pianeta, sistemi produttivi e gruppi sociali. 
                          Una crisi che, se per un verso rilancia il valore dell’economia 
                          sociale di mercato – che della costruzione europea 
                          costituisce il 
                          cuore e l’anima –, al tempo stesso colpisce 
                          duramente il nostro 
                          continente e le sue istituzioni comuni e fa emergere 
                          in modo 
                          evidente l’inadeguatezza della strategia di sviluppo 
                          e degli strumenti 
                          che l’Unione europea si era data a Lisbona dieci 
                          anni fa 
                          per affrontare le sfide della globalizzazione. Dall’altro 
                          lato, proprio 
                          quando la crisi rivela l’inadeguatezza dei tradizionali 
                          meccanismi 
                          di coordinamento delle politiche economiche e minaccia 
                          la moneta comune, giunge finalmente a compimento, dopo 
                          un travagliato percorso (ricostruito da Sandro Guerrieri 
                          nel 
                          suo contributo) quel processo di riforma istituzionale 
                          di spessore 
                          costituzionale che aveva avuto avvio anch’esso 
                          all’inizio del 
                          decennio – alla vigilia dell’entrata in 
                          circolazione della moneta 
                          unica e all’indomani dell’11 settembre – 
                          con la dichiarazione di 
                          Laeken del 2001. Un processo che non mirava solo ad 
                          adeguare 
                          i meccanismi di governance all’imminente allargamento 
                          a est, ma 
                          si fondava sull’esplicita consapevolezza dell’inadeguatezza 
                          non 
                          solo tecnica degli «aggiustamenti» all’impianto 
                          di Maastricht 
                          rea lizzati ad Amsterdam e Nizza, di fronte alla ormai 
                          ineludibile 
                          necessità di dotare l’Europa di un’effettiva 
                          sostanza democratica 
                          e di metterla in condizione di «assumere le proprie 
                          responsabilità 
                          nella gestione della globalizzazione». 
                          Quanto l’introduzione del nuovo assetto istituzionale 
                          definito 
                          dal trattato di Lisbona fosse urgente è esemplificato 
                          in 
                          modo esemplare proprio dal modo inadeguato con cui l’Unione 
                          europea ha risposto alla crisi esplosa nel 2008. Come 
                          è ben ricostruito 
                          nel saggio di Ronny Mazzocchi, l’European Economic 
                          Recovery Plan lanciato dalla Commissione alla fine di 
                          quell’anno 
                          è stato in realtà poco più che 
                          un’etichetta giustapposta a una serie 
                          di misure anticicliche nazionali che si sono rivelate 
                          non solo 
                          insufficienti, ma che hanno per di più aggravato 
                          gli squilibri e 
                          le asimmetrie tra le politiche fiscali europee con conseguenze 
                          potenzialmente destabilizzanti che non hanno tardato 
                          a manifestarsi. 
                          Con il precipitare della crisi greca, il nuovo Consiglio 
                          europeo e il suo presidente hanno così dovuto 
                          fare i conti con il 
                          tema ineludibile del «governo economico europeo», 
                          ossia con la 
                          duplice necessità di dotare l’Europa (e 
                          innanzitutto l’eurozona) 
                          delle risorse e degli strumenti per svolgere la funzione 
                          di «prestatore 
                          di ultima istanza» anche al proprio interno e 
                          di affiancare 
                          alla politica monetaria comune una vera politica fiscale 
                          e di 
                          bilancio europea, capace, da un lato, di coordinare 
                          in modo più 
                          cogente le politiche fiscali nazionali, e, dall’altro, 
                          di mobilitare 
                          risorse significative a livello europeo per grandi investimenti 
                          in 
                          reti, infrastrutture e innovazione. 
                          In un primo tempo, è stata scelta la strada di 
                          un impegno 
                          politico a evitare il fallimento di un paese dell’area 
                          dell’euro, 
                          che è tuttavia risultato poco efficace e al quale 
                          ha fatto seguito 
                          la scelta di un primo pacchetto di interventi bilaterali 
                          affiancati 
                          a un intervento dell’Fmi. Solo quando i mercati 
                          hanno mostrato 
                          di non ritenere adeguato lo strumento prescelto, il 
                          Consiglio europeo 
                          ha deciso di aprire la strada a un intervento più 
                          sostanzioso 
                          e più europeo, concretizzatosi nelle misure varate 
                          nella 
                          notte tra il 9 e il 10 maggio dall’Ecofin e precisate 
                          nei giorni 
                          successivi: l’adozione di un «Meccanismo 
                          europeo di stabilizzazione per preservare la stabilità 
                          finanziaria» con una dotazione 
                          di 750 miliardi di euro (250 milioni provenienti dall’Fmi 
                          e 500 
                          dall’Europa, dei quali 440 forniti dagli Stati 
                          membri), la decisione 
                          della Bce di acquistare titoli di debito nazionali sul 
                          mercato 
                          secondario per sostenerne il corso e il rafforzamento 
                          del 
                          coordinamento delle politiche di bilancio. Si tratta 
                          di misure 
                          molto significative, non solo per l’entità 
                          delle risorse messe in 
                          campo e per il nuovo ruolo della Banca centrale europea, 
                          ma 
                          soprattutto la natura della prima tranche di 60 miliardi 
                          del pacchetto 
                          varato dall’Ecofin. La base giuridica di tale 
                          tranche è, infatti, 
                          esplicitamente individuata nell’articolo 122.2 
                          del Trattato 
                          sul funzionamento dell’Unione europea, che prevede 
                          la concessione 
                          di «un’assistenza finanziaria dell’Unione» 
                          a uno Stato 
                          membro che «si trovi in difficoltà o sia 
                          seriamente minacciato 
                          da gravi difficoltà a causa di calamità 
                          naturali o di circostanze 
                          eccezionali che sfuggono al suo controllo». Si 
                          tratta di una 
                          svolta significativa, perché la previsione di 
                          un volume di risorse 
                          pari a 60 miliardi di euro implica per la prima volta 
                          la possibilità 
                          di fare ricorso, se necessario, all’emissione 
                          di titoli di debito 
                          europei sotto la garanzia degli Stati membri. 
                          L’apertura di un varco nel muro, contro cui la 
                          proposta di 
                          emettere eurobond si era finora sempre infranta, costituisce 
                          indubbiamente 
                          un precedente di grande importanza, che renderà 
                          difficile giustificare in seguito perché l’emissione 
                          di titoli 
                          europei debba essere negata per gli investimenti, quando 
                          essa è 
                          stata prevista per sostenere le bilance dei pagamenti 
                          dei paesi 
                          in difficoltà. E, tuttavia, non è affatto 
                          detto che l’Europa sarà 
                          in grado di procedere con la sufficiente speditezza 
                          e determinazione 
                          lungo questa strada, nonostante essa sia l’unica 
                          che consentirebbe 
                          di compensare l’esigenza di maggiore rigore a 
                          livello 
                          dei bilanci nazionali con il necessario stimolo allo 
                          sviluppo e alla 
                          crescita. 
                          Basta esaminare la nuova Strategia Eu2020 presentata 
                          dalla 
                          Commissione, che, se corregge (solo in parte) alcuni 
                          limiti della 
                          precedente Strategia di Lisbona (in particolare la sua 
                          eccessiva 
                          impronta neo-liberale, l’assenza della nozione 
                          di politica industriale 
                          e un’enfasi sull’economia della conoscenza 
                          disgiunta da 
                          un’adeguata sottolineatura della necessità 
                          per l’Europa di rilanciare 
                          la sua vocazione manifatturiera), risulta inadeguata 
                          sia 
                          sotto il profilo degli obiettivi che sotto quello degli 
                          strumenti. 
                          Oppure è sufficiente esaminare il dibattito sul 
                          bilancio europeo 
                          e il modo in cui Commissione e Consiglio continuano 
                          a eludere 
                          il nodo delle risorse proprie. I segnali positivi sul 
                          versante della 
                          mobilitazione del risparmio privato europeo per investimenti 
                          in beni comuni (innanzitutto reti e infrastrutture), 
                          come quelli 
                          rappresentati dalla nascita del «Fondo Marguerite» 
                          (che unisce 
                          l’italiana Cassa depositi e prestiti e i suoi 
                          omologhi europei), 
                          non appaiono dunque per il momento collocati nel quadro 
                          di 
                          una coerente strategia capace di misurarsi in modo realistico 
                          ma 
                          ambizioso con i diversi elementi di un vero «governo 
                          economico 
                          europeo» (tra i quali ovviamente vi è anche 
                          il contributo alla riforma 
                          dei mercati finanziari). Solo i prossimi mesi diranno 
                          se le 
                          potenzialità del nuovo assetto istituzionale 
                          verranno utilizzate 
                          per consentire all’Europa di affrontare in modo 
                          adeguato la crisi 
                          e la necessità di rilanciare il proprio sviluppo. 
                          Anche le altre dimensioni della costruzione europea 
                          evidenziano 
                          una contraddizione tra le esigenze di innovazione rilanciate 
                          dal contesto interno e internazionale, le potenzialità 
                          del 
                          nuovo quadro istituzionale e il riflesso conservatore 
                          che caratterizza 
                          l’azione del Consiglio e della Commissione. Basti 
                          pensare, 
                          come sottolinea Fabrizia Panzetti nel suo contributo, 
                          al 
                          modo in cui il nuovo programma di Stoccolma varato dal 
                          Consiglio 
                          europeo sulle priorità, gli obiettivi e gli strumenti 
                          dello 
                          Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sostanzialmente 
                          eluda 
                          novità fondamentali come il nuovo ruolo assegnato 
                          in questo 
                          settore al Parlamento europeo dal trattato di Lisbona 
                          e il carattere 
                          vincolante della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. 
                          Il voto con cui il Parlamento europeo, nonostante le 
                          fortissime 
                          pressioni esercitate sui suoi membri, ha respinto l’accordo 
                          Swift che consentiva la cessione agli Stati Uniti dei 
                          dati sensibili 
                          bancari ai fini di lotta al terrorismo in forme che 
                          violavano 
                          manifestamente le leggi europee e i diritti dei cittadini, 
                          ha dimostrato 
                          però che gli effetti del trattato di Lisbona 
                          sono assai 
                          più profondi di quanto da molti ritenuto. E che 
                          quindi l’enfasi 
                          sulla dimensione della sicurezza e sull’intergovernatività 
                          che caratterizza 
                          il programma di Stoccolma dovrà fare i conti 
                          con una 
                          dialettica interistituzionale inedita che potrebbe contribui 
                          re a 
                          ridefinirne il profilo, rendendolo più adeguato 
                          all’esigenza di 
                          dare maggior corpo e sostanza alla dimensione della 
                          cittadinanza 
                          europea. 
                          La proiezione esterna dell’Europa costituisce 
                          il terzo grande 
                          ambito in cui la dialettica tra sfide e opportunità 
                          è particolarmente 
                          pronunciata. Il nuovo assetto istituzionale definito 
                          dal 
                          trattato di Lisbona coincide, infatti, con una stagione 
                          di profondi 
                          cambiamenti sulla scena internazionale. La transizione 
                          verso un assetto multipolare procede con tensioni e 
                          scosse che 
                          mettono in luce come, se da un lato i vecchi equilibri 
                          economici 
                          e politici non tengono più, dall’altro 
                          la strada per la costruzione 
                          di un nuovo ordine internazionale sia ancora lunga e 
                          difficile. 
                          La crisi economica e finanziaria; l’ascesa della 
                          Cina e il suo crescente 
                          peso non solo in Asia ma in quella che i cinesi definiscono 
                          una «grande periferia» che dal Medio Oriente 
                          si spinge 
                          fino all’Africa; il consolidamento della dimensione 
                          statuale della 
                          Russia e la ritrovata assertività della sua politica 
                          estera, con la 
                          conseguente maggiore capacità di condizionare 
                          gli equilibri politici 
                          alle sue frontiere; le crescenti tensioni a cui è 
                          sottoposto 
                          il regime di non proliferazione (a partire dal loro 
                          vero epicentro: 
                          il confronto tra India e Pakistan); la riscoperta della 
                          dimensione 
                          asiatica nella politica estera giapponese e turca; la 
                          rottura 
                          dei vecchi equilibri mediorientali e la nuova centralità 
                          regionale 
                          dell’Iran (innescati dal tentativo della precedente 
                          amministrazione 
                          statunitense di giocare la «carta sciita» 
                          per rivoluzionare 
                          il vecchio status quo); la crisi politica che ha colpito 
                          in Israele le 
                          forze consapevoli della necessità strategica 
                          della pace e, sull’altro 
                          fronte, la scomposizione del movimento nazionale palestinese, 
                          con il conseguente stallo del processo di pace; la persistente 
                          minaccia 
                          del terrorismo jihadista; per non parlare dei mutamenti 
                          in atto in America Latina e in Africa. È un quadro 
                          complesso, 
                          che non segna solo una nuova dislocazione geografica 
                          delle 
                          forze, ma anche un forte intreccio tra politica ed economia, 
                          tra 
                          vecchie e nuove dimensioni della sicurezza, tra il ruolo 
                          di attori 
                          statali e non statali. 
                          In questo scenario, la nuova amministrazione americana 
                          è 
                          impegnata in un ambizioso e difficile tentativo di rispondere 
                          all’evidente «crisi di egemonia» che 
                          ha colpito gli Stati Uniti e 
                          di correggere, con inevitabile gradualità, gli 
                          squilibri e le asimmetrie 
                          accumulatesi dopo la fine del bipolarismo e accentuatesi 
                          per effetto della risposta dell’amministrazione 
                          Bush all’11 
                          settembre e più in generale del suo tentativo 
                          di consolidare 
                          l’apparente unipolarismo post-1989 in modo unilaterale 
                          e non 
                          cooperativo. Il tentativo (simmetrico a quello in atto 
                          sul piano 
                          economico di diminuire gradualmente lo squilibrio strutturale 
                          della bilancia dei pagamenti americana, l’eccesso 
                          di debito privato 
                          e i rischi di deindustrializzazione senza mettere in 
                          pericolo 
                          il ruolo del dollaro e il mercato dei titoli del tesoro) 
                          è di ricostruire 
                          un’architettura multilaterale che consenta di 
                          ridurre la 
                          sovraesposizione politico-militare statunitense e i 
                          suoi crescenti 
                          costi economici e politici senza creare vuoti di potere 
                          e pregiudicare 
                          la ricerca di stabilità e di sicurezza. Di qui 
                          il «reset» 
                          nei confronti della Russia e la rinnovata centralità 
                          assegnata al 
                          Trattato di Non Proliferazione, che non costituiscono 
                          solo una 
                          condizione per contrastare la proliferazione delle armi 
                          di distruzione 
                          di massa e i rischi di terrorismo nucleare, ma a loro 
                          volta 
                          appaiono strettamente collegati allo sforzo di perseguire 
                          una 
                          stabilizzazione del «grande Medio Oriente» 
                          su basi cooperative. 
                          Una stabilizzazione che nelle intenzioni dovrebbe favorire 
                          una 
                          onorevole exit strategy dall’Afghanistan e un 
                          «contenimento» 
                          politico dell’Iran che escluda l’ipotesi 
                          di attacco israeliano, contribuendo 
                          al tempo stesso a creare le condizioni per una ripresa 
                          del processo di pace. Si tratta di una strategia che 
                          ha conseguito 
                          alcuni importanti successi (la firma del nuovo trattato 
                          Start e 
                          la Nuclear Posture Review, la riforma sanitaria, la 
                          risposta alla 
                          crisi), ma che al tempo stesso sconta un quadro politico 
                          interno 
                          problematico e un’evidente difficoltà a 
                          condizionare gli attori 
                          politici regionali e non statali soprattutto nel «grande 
                          Medio 
                          Oriente». 
                          Questo sofferto processo verso un nuovo multipolarismo 
                          e il 
                          tentativo dell’amministrazione Obama, non privo 
                          di contraddizioni, 
                          di incardinarlo in una rinnovata architettura multilaterale 
                          presentano per l’Europa al tempo stesso rischi 
                          e opportunità. 
                          I rischi sono innanzitutto quelli di una marginalizzazione 
                          del 
                          vecchio continente, ma anche quelli di un fallimento 
                          del tentativo 
                          americano di «governare la transizione» 
                          in Afghanistan e in 
                          Medio Oriente, che non potrebbe che innescare sviluppi 
                          assai 
                          preoccupanti dal punto di vista dell’Europa e 
                          della sua sicurezza. 
                          Le opportunità non derivano solo dal contesto 
                          molto più 
                          propizio a una nuova Ostpolitik derivante dal nuovo 
                          approccio 
                          americano verso la Russia, ma sono quelle offerte dall’apertura 
                          rilevante di nuovi spazi per l’iniziativa internazionale 
                          europea e 
                          dalla possibilità di dare vita a una rinnovata 
                          partnership strategica con gli Stati Uniti che assegni 
                          un ruolo centrale al rafforzamento 
                          del processo di integrazione e punti alla costruzione 
                          di 
                          un nuovo ordine democratico multilaterale. 
                          Scongiurare i rischi e cogliere le opportunità 
                          impongono 
                          innanzitutto volontà politica, ma richiedono 
                          anche di saper 
                          effettivamente fare della nuova architettura istituzionale 
                          delineata 
                          a Lisbona l’occasione per definire un assetto 
                          di governance 
                          in grado di dare coerenza e consistenza all’azione 
                          esterna 
                          dell’Unione. Il problema principale è quello 
                          di rafforzare la 
                          coe renza tra le differenti dimensioni dell’azione 
                          esterna della 
                          Ue (oltre che tra questa e la dimensione esterna delle 
                          sue politiche 
                          interne) e di definire le relazioni e le complementarità 
                          tra 
                          la Pesc/Psdc e la Nato, nel quadro del processo di costruzione 
                          di una difesa comune. A questo proposito le novità 
                          introdotte 
                          dal trattato di Lisbona sono considerevoli: non solo, 
                          infatti, la 
                          nuova figura dell’Alto rappresentante/vicepresidente 
                          della Commissione 
                          (oltre che presidente del Consiglio Affari Esteri) assume 
                          la titolarità della conduzione e del coordinamento 
                          tanto 
                          della componente intergovernativa che di quella comunitaria 
                          dell’azione esterna dell’Unione, ma con 
                          il Servizio Europeo per 
                          l’Azione Esterna sarà finalmente possibile 
                          unificare gli strumenti 
                          di tale azione e coordinare la programmazione strategica 
                          degli 
                          strumenti finanziari dell’Unione europea (che 
                          costituiscono l’elemento 
                          più originale della sua azione internazionale) 
                          con le iniziative 
                          in ambito Pesc. Se a tutto ciò si aggiungono 
                          le nuove disposizioni 
                          che regolano la politica estera e di sicurezza comune 
                          e la politica di sicurezza e difesa comune, la cooperazione 
                          strutturata 
                          permanente e le clausole di assistenza reciproca e di 
                          solidarietà, 
                          emerge una strumentazione istituzionale potenzialmente 
                          in grado di far compiere un salto di qualità 
                          all’azione esterna 
                          della Ue e di sostenerne le ambizioni di attore globale. 
                          In questo quadro, le priorità della politica 
                          estera europea 
                          sono facilmente individuabili: i Balcani occidentali, 
                          con la 
                          necessità di sviluppare sempre più un 
                          approccio regionale nei 
                          confronti del processo di allargamento e la sfida ad 
                          assumere 
                          fino in fondo il ruolo di garante della sicurezza della 
                          regione; la 
                          partnership orientale, concepita come ponte nei confronti 
                          della 
                          Russia e non più diaframma (a patto di saper 
                          superare progressivamente 
                          le divisioni interne ai 27 su questo punto); il Medio 
                          Oriente e il Mediterraneo. 
                          Proprio al Mediterraneo, agli scenari strategici che 
                          si stanno 
                          aprendo nell’area e al ruolo che l’Europa 
                          ha giocato e giocherà 
                          nel prossimo futuro, è dedicata la monografia 
                          di quest’anno. 
                          In particolare, i due saggi di apertura si soffermano 
                          su due 
                          fattori che sono destinati a incidere significativamente 
                          sul futuro 
                          strategico dell’area, rappresentati, da un lato, 
                          dal rinnovamento 
                          dello scacchiere delle alleanze nel quadro mediorientale; 
                          dall’altro, 
                          dall’esito dell’ondata incombente di successioni 
                          al vertice, 
                          attesa per gran parte dei paesi del Mediterraneo. 
                          Il saggio di Fabio Nicolucci fa chiarezza sul complesso 
                          panorama 
                          della politica mediorientale anche alla luce degli avvenimenti 
                          che hanno caratterizzato l’area negli ultimi anni. 
                          Si tratta 
                          di una questione di fondamentale importanza, soprattutto 
                          per 
                          gli effetti che si avranno in termini di stabilità 
                          del Mediterraneo 
                          nel suo complesso. Il sostanziale fallimento della politica 
                          americana 
                          in Iraq, l’assunzione dell’Iran come potenza 
                          regionale e 
                          l’emergere di nuovi elementi di contrapposizione 
                          basati su fattori 
                          etnico-religiosi lasciano presagire un panorama poco 
                          rassicurante. 
                          A complicare ulteriormente il quadro, si aggiunge una 
                          politica americana, più promettente che in passato, 
                          ma comunque 
                          titubante e sempre meno incisiva, a cui si contrappone 
                          la 
                          concorrenza di altri attori che guardano a est con interesse 
                          crescente 
                          e un’Europa che ancora non riesce a convincere. 
                          Il saggio di Philippe Droz-Vincent si sofferma sull’ondata 
                          di successioni che ha interessato alcuni paesi della 
                          sponda sud 
                          (Marocco, Giordania e Siria) e che nel prossimo futuro 
                          si propagherà 
                          nella maggior parte di questi. In una regione come il 
                          Mediterraneo, in cui gli ultimi trent’anni ha 
                          predominato un’eccessiva 
                          stabilità al vertice, le successioni previste 
                          potrebbero 
                          aprire nuovi interessanti scenari. Esse potrebbero rappresentare 
                          un’occasione per superare la situazione di immobilismo, 
                          un’opportunità 
                          di rinnovamento politico. Sebbene non sia possibile 
                          prevedere con esattezza gli esisti delle successioni, 
                          l’analisi condotta 
                          da Droz Vincent sembra, comunque, ridimensionare la 
                          portata del cambiamento. La nuova generazione al potere 
                          resterà 
                          legata al sistema autoritario che l’ha preceduta. 
                          Se non per 
                          via ereditaria, i nuovi leader saranno scelti nel ristretto 
                          ambito 
                          delle elite al vertice. 
                          In seguito a questo focus sugli scenari aperti in ambito 
                          politico, 
                          la parte monografica del Rapporto prende in considerazione 
                          l’evoluzione delle politiche europee nell’area 
                          del Mediterraneo 
                          presentandone le principali caratteristiche, obiettivi 
                          e 
                          innovazioni introdotte di recente, mettendone in risalto 
                          opportunità 
                          e limiti. 
                          Il saggio di Dorothée Schmid, in particolare, 
                          traccia il quadro 
                          delle politiche e del dibattito che hanno interessato 
                          l’azione 
                          comunitaria nel Mediterraneo negli ultimi quindici anni, 
                          passando 
                          dal partenariato euro-mediterraneo alla politica di 
                          vicinato 
                          alla più recente Unione per il Mediterraneo. 
                          Nonostante 
                          il rinnovamento del quadro politico di riferimento, 
                          le politiche 
                          comunitarie nel Mediterraneo non sembrano essere state 
                          sufficientemente 
                          incisive per affrontare le sfide e cogliere le nuove 
                          opportunità che l’area presenta. L’obiettivo 
                          della creazione di 
                          un’area di pace e di stabilità è 
                          lungi dall’essere realizzato. Rispetto 
                          ai primi anni Novanta, il Mediterraneo vive gli stessi 
                          conflitti e tensioni ancora attive (Sahara occidentale, 
                          Israele- 
                          Palestina e Cipro), e i fattori di instabilità 
                          si sono acuiti con il 
                          passare del tempo. Queste conclusioni sono condivise 
                          anche da 
                          Bruno Marasà, il quale precisa come in prospettiva 
                          la stabilizzazione 
                          del vicinato, soprattutto a sud, rimarrà centrale 
                          nelle 
                          relazioni dell’Unione europea con la regione soprattutto 
                          con riferimento 
                          ai nuovi equilibri geo-politici determinati dall’evoluzione 
                          dello scacchiere delle alleanze in Medio Oriente. Secondo 
                          l’autore, il ruolo dell’Europa nell’area 
                          dipenderà molto dalla 
                          sua capacità di operare un rafforzamento della 
                          dimensione politica 
                          nell’azione verso il Mediterraneo, sfruttando 
                          le opportunità 
                          aperte in questo senso dalle innovazioni apportate dal 
                          trattato 
                          di Lisbona. Sarà necessario, in particolare, 
                          rafforzare la capacità 
                          dell’Unione di imporsi come attore rilevante nell’area, 
                          il che si 
                          traduce nella capacità di esprimersi con una 
                          voce unica, di assumere 
                          una posizione di rilievo nella pacificazione dell’area 
                          e, 
                          in particolare, nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese, 
                          in un’ottica di crescente collaborazione con gli 
                          Stati Uniti, sfruttando 
                          il cambiamento di rotta inaugurato dall’amministrazione 
                          Obama. 
                          Allo stesso tempo, deve essere rafforzato il contributo 
                          delle 
                          politiche comunitarie nella promozione di riforme politiche 
                          nei 
                          paesi partner della sponda sud; obiettivo questo enunciato 
                          dalla 
                          Dichiarazione di Barcellona e perseguito nell’ambito 
                          del paniere 
                          politico del partenariato euro-mediterraneo. Ripreso 
                          anche dai 
                          «Piani di azione della politica di vicinato», 
                          questo principio ha 
                          faticato a trovare una concreta attuazione. Il saggio 
                          di Rosa Balfour 
                          e Battistina Cugusi spiega come dietro questa impasse 
                          abbia 
                          per lungo tempo perdurato il timore di minare la stabilità 
                          dell’area promuovendo quei movimenti e partiti 
                          islamici che, 
                          in molti paesi, rappresentano importanti forze di opposizione 
                          o 
                          con largo seguito nella società. Sebbene la possibilità 
                          di dialogare 
                          a livello politico con questi attori sia stata fortemente 
                          dibattuta, 
                          a livello europeo non esiste una posizione univoca né 
                          una politica comune verso tali attori. 
                          Il contributo di Lorenzo Coslovi e Paola Monzini mostra 
                          bene come il tema delle migrazioni trans-mediterranee 
                          sia considerato 
                          tra i principali fattori di instabilità in provenienza 
                          dalla 
                          sponda sud del Mediterraneo. L’analisi dell’evoluzione 
                          delle 
                          politiche bilaterali condotte negli anni Ottanta e Novanta, 
                          e, in 
                          seguito, delle politiche europee svela il prevalere 
                          di un approccio 
                          restrittivo verso le migrazioni dai paesi della sponda 
                          sud del 
                          Mediterraneo. Il saggio spiega anche come l’adozione 
                          di un approccio 
                          di questo tipo abbia acuito il sentimento di insicurezza 
                          piuttosto che attenuarlo. Esso, infatti, ha contribuito 
                          a generare 
                          conseguenze inattese, tra cui la diversione dei flussi 
                          su rotte alternative, 
                          ma più pericolose, con l’aumento del ruolo 
                          della malavita 
                          nella gestione delle nuove rotte, e ha contribuito a 
                          rendere 
                          a loro volta i paesi della sponda sud sempre più 
                          paesi di transito 
                          dei flussi migratori provenienti dall’Africa sub-sahariana. 
                          Il saggio di Frédéric Blanc e Nathalie 
                          Roux si sofferma sugli 
                          aspetti economici delle relazioni euro-mediterranee 
                          e soprattutto 
                          sulle dinamiche degli scambi delineando l’evoluzione 
                          che il sistema 
                          di interdipendenza tra le due sponde del Mediterraneo 
                          ha conosciuto dal 1995 a oggi. Come noto, la creazione 
                          di una 
                          zona di libero scambio ha rappresentato il perno della 
                          strategia 
                          fissata a Barcellona, in cui il rafforzamento dell’interdipendenza 
                          economica rappresenta il volano attraverso il quale 
                          stimolare lo 
                          sviluppo dei paesi della sponda sud. Dal 1995, un importante 
                          risultato raggiunto dal partenariato euro-mediterraneo 
                          è stato 
                          quello di aver effettivamente contribuito alla maggiore 
                          apertura 
                          internazionale dei partner della sponda sud, soprattutto 
                          sul 
                          fronte degli investimenti e degli scambi di servizi. 
                          Gli autori sottolineano, 
                          tuttavia, come il partenariato non abbia raggiunto i 
                          suoi obiettivi principali. Le promesse di un dinamico 
                          mercato 
                          pan-mediterraneo, che alimentavano la visione tecnocratica 
                          del 
                          partenariato euro-mediterraneo prima maniera, sono naufragate 
                          nello scarso sviluppo degli scambi sub-regionali (fermi 
                          dal 1995 
                          al 5%), in scambi caratterizzati da un’evidente 
                          asimmetria (solo 
                          il 9% delle esportazioni extra-Ue e il 6% degli Ide 
                          extra-Ue 
                          proviene dai paesi della sponda sud), in una scarsa 
                          qualità degli 
                          scambi stessi (forte polarizzazione su prodotti di specializzazione), 
                          in una integrazione produttiva marginale. 
                          Come mostra Mustafa K. Faid nel suo saggio, anche il 
                          settore 
                          energetico non è al riparo dalla relazione asimmetrica 
                          che 
                          caratterizza gli scambi commerciali nell’area 
                          mediterranea: così, 
                          mentre i paesi europei sono i principali paesi di sbocco 
                          di questa 
                          tipologia di esportazione (il 70% delle esportazioni 
                          di petrolio 
                          e il 90% di quelle di gas dell’Africa del nord 
                          sono destinati 
                          all’Europa), le importazioni dai paesi della sponda 
                          sud, seppur 
                          rilevanti, soddisfano solo il 15% del fabbisogno energetico 
                          dei 
                          paesi europei, secondo una strategia di diversificazione 
                          delle 
                          fonti di approvvigionamento. In prospettiva, il settore 
                          energetico 
                          sarà comunque determinante per il futuro dell’area 
                          e delle relazioni 
                          euro-mediterranee; un rafforzamento della cooperazione 
                          in questo campo assume, dunque, rilevanza strategica. 
                          Diverse 
                          saranno le sfide all’ordine del giorno, prima 
                          fra tutte quella che 
                          vede l’area di fronte a una maggiore competizione 
                          per le risorse: 
                          da un lato cresceranno i consumi energetici dei partner 
                          della 
                          sponda sud (il fabbisogno dovrebbe crescere di circa 
                          il 40% nei 
                          prossimi 15 anni); e dall’altro gli ingenti investimenti 
                          necessari 
                          per farvi fronte potrebbero provocare tensioni sul piano 
                          della 
                          disponibilità. 
                          Il saggio di Hanaa Ebeid, infine, presenta il punto 
                          di vista 
                          arabo sul ruolo dell’Unione europea e sulle politiche 
                          comunitarie 
                          nel Mediterraneo. Basandosi sui media e prendendo come 
                          fonte soprattutto la carta stampata, l’analisi 
                          svela una visione 
                          dell’Europa complessa e sfaccettata, dove l’interesse 
                          crescente 
                          per il partenariato economico si mescola con un sentimento 
                          di 
                          insoddisfazione per i risultati di politiche che sembrano 
                          essere 
                          tagliate più per l’interesse della sponda 
                          nord; dove la visione romantica 
                          dell’Europa come potenza mondiale rispettosa del 
                          diritto 
                          internazionale deve fare i conti con le difficoltà 
                          della stessa 
                          di assumere una posizione decisiva sul conflitto israelo-palestinese 
                          o di intraprendere un’azione indipendente dagli 
                          Stati Uniti; 
                          dove l’ammirazione per i risultati raggiunti nel 
                          processo di integrazione 
                          europea si scontra con gli episodi di discriminazione 
                          ai danni di migranti della sponda sud, che molta eco 
                          hanno nei 
                          paesi di provenienza. 
                          Quella proposta nella monografia è dunque un’analisi 
                          ad 
                          ampio raggio che concepisce l’integrazione tra 
                          le dimensioni 
                          economica, sociale e politica come l’unica chiave 
                          per consentire 
                          all’Europa di superare i limiti della politica 
                          mediterranea di 
                          questi anni e di cogliere le straordinarie opportunità 
                          che le trasformazioni 
                          in atto offrono di fare del Mediterraneo una vera e 
                          grande zona di prosperità e di pace condivisa. 
                           
                          |