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Rapporto 2010 sull'integrazione europea
della Fondazione Istituto Gramsci e del CeSPI
Hub globale, trincea o pantano?
Il futuro del Mediterraneo e il ruolo dell’Europa
a cura di Roberto Gualtieri e José Luis Rhi-Sausi
Il Mulino, Bologna 2010

pp. 308, € 25,00
ISBN 978-88-15-13799-9

Prefazione
di Roberto Gualtieri e José Luis Rhi-Sausi

La dialettica tra sfide e opportunità, tra repentine trasformazioni
del quadro economico e politico interno e internazionale
e rilancio del processo di integrazione ha accompagnato
fin dalle origini la storia della costruzione europea e le sue
tappe fondamentali (basti pensare allo stretto nesso che ha legato
tra loro il Piano Schuman, il Piano Marshall e lo scoppio
della guerra fredda; la costruzione del Mercato comune, Suez
e la decolonizzazione, la stabilizzazione del bipolarismo; Maastricht
e l’89). Con la chiusura del primo decennio del nuovo
secolo tale dialettica appare particolarmente stringente. Da un
lato, infatti, assistiamo all’esplosione della più grande crisi economica
e finanziaria del dopoguerra, che, al di là delle dinamiche
interne al sistema finanziario che l’hanno innescata, è il
precipitato dell’erosione, che durava da tempo, di equilibri decennali
tra aree del pianeta, sistemi produttivi e gruppi sociali.
Una crisi che, se per un verso rilancia il valore dell’economia
sociale di mercato – che della costruzione europea costituisce il
cuore e l’anima –, al tempo stesso colpisce duramente il nostro
continente e le sue istituzioni comuni e fa emergere in modo
evidente l’inadeguatezza della strategia di sviluppo e degli strumenti
che l’Unione europea si era data a Lisbona dieci anni fa
per affrontare le sfide della globalizzazione. Dall’altro lato, proprio
quando la crisi rivela l’inadeguatezza dei tradizionali meccanismi
di coordinamento delle politiche economiche e minaccia
la moneta comune, giunge finalmente a compimento, dopo
un travagliato percorso (ricostruito da Sandro Guerrieri nel
suo contributo) quel processo di riforma istituzionale di spessore
costituzionale che aveva avuto avvio anch’esso all’inizio del
decennio – alla vigilia dell’entrata in circolazione della moneta
unica e all’indomani dell’11 settembre – con la dichiarazione di
Laeken del 2001. Un processo che non mirava solo ad adeguare
i meccanismi di governance all’imminente allargamento a est, ma
si fondava sull’esplicita consapevolezza dell’inadeguatezza non
solo tecnica degli «aggiustamenti» all’impianto di Maastricht
rea lizzati ad Amsterdam e Nizza, di fronte alla ormai ineludibile
necessità di dotare l’Europa di un’effettiva sostanza democratica
e di metterla in condizione di «assumere le proprie responsabilità
nella gestione della globalizzazione».
Quanto l’introduzione del nuovo assetto istituzionale definito
dal trattato di Lisbona fosse urgente è esemplificato in
modo esemplare proprio dal modo inadeguato con cui l’Unione
europea ha risposto alla crisi esplosa nel 2008. Come è ben ricostruito
nel saggio di Ronny Mazzocchi, l’European Economic
Recovery Plan lanciato dalla Commissione alla fine di quell’anno
è stato in realtà poco più che un’etichetta giustapposta a una serie
di misure anticicliche nazionali che si sono rivelate non solo
insufficienti, ma che hanno per di più aggravato gli squilibri e
le asimmetrie tra le politiche fiscali europee con conseguenze
potenzialmente destabilizzanti che non hanno tardato a manifestarsi.
Con il precipitare della crisi greca, il nuovo Consiglio
europeo e il suo presidente hanno così dovuto fare i conti con il
tema ineludibile del «governo economico europeo», ossia con la
duplice necessità di dotare l’Europa (e innanzitutto l’eurozona)
delle risorse e degli strumenti per svolgere la funzione di «prestatore
di ultima istanza» anche al proprio interno e di affiancare
alla politica monetaria comune una vera politica fiscale e di
bilancio europea, capace, da un lato, di coordinare in modo più
cogente le politiche fiscali nazionali, e, dall’altro, di mobilitare
risorse significative a livello europeo per grandi investimenti in
reti, infrastrutture e innovazione.
In un primo tempo, è stata scelta la strada di un impegno
politico a evitare il fallimento di un paese dell’area dell’euro,
che è tuttavia risultato poco efficace e al quale ha fatto seguito
la scelta di un primo pacchetto di interventi bilaterali affiancati
a un intervento dell’Fmi. Solo quando i mercati hanno mostrato
di non ritenere adeguato lo strumento prescelto, il Consiglio europeo
ha deciso di aprire la strada a un intervento più sostanzioso
e più europeo, concretizzatosi nelle misure varate nella
notte tra il 9 e il 10 maggio dall’Ecofin e precisate nei giorni
successivi: l’adozione di un «Meccanismo europeo di stabilizzazione per preservare la stabilità finanziaria» con una dotazione
di 750 miliardi di euro (250 milioni provenienti dall’Fmi e 500
dall’Europa, dei quali 440 forniti dagli Stati membri), la decisione
della Bce di acquistare titoli di debito nazionali sul mercato
secondario per sostenerne il corso e il rafforzamento del
coordinamento delle politiche di bilancio. Si tratta di misure
molto significative, non solo per l’entità delle risorse messe in
campo e per il nuovo ruolo della Banca centrale europea, ma
soprattutto la natura della prima tranche di 60 miliardi del pacchetto
varato dall’Ecofin. La base giuridica di tale tranche è, infatti,
esplicitamente individuata nell’articolo 122.2 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea, che prevede la concessione
di «un’assistenza finanziaria dell’Unione» a uno Stato
membro che «si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato
da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze
eccezionali che sfuggono al suo controllo». Si tratta di una
svolta significativa, perché la previsione di un volume di risorse
pari a 60 miliardi di euro implica per la prima volta la possibilità
di fare ricorso, se necessario, all’emissione di titoli di debito
europei sotto la garanzia degli Stati membri.
L’apertura di un varco nel muro, contro cui la proposta di
emettere eurobond si era finora sempre infranta, costituisce indubbiamente
un precedente di grande importanza, che renderà
difficile giustificare in seguito perché l’emissione di titoli
europei debba essere negata per gli investimenti, quando essa è
stata prevista per sostenere le bilance dei pagamenti dei paesi
in difficoltà. E, tuttavia, non è affatto detto che l’Europa sarà
in grado di procedere con la sufficiente speditezza e determinazione
lungo questa strada, nonostante essa sia l’unica che consentirebbe
di compensare l’esigenza di maggiore rigore a livello
dei bilanci nazionali con il necessario stimolo allo sviluppo e alla
crescita.
Basta esaminare la nuova Strategia Eu2020 presentata dalla
Commissione, che, se corregge (solo in parte) alcuni limiti della
precedente Strategia di Lisbona (in particolare la sua eccessiva
impronta neo-liberale, l’assenza della nozione di politica industriale
e un’enfasi sull’economia della conoscenza disgiunta da
un’adeguata sottolineatura della necessità per l’Europa di rilanciare
la sua vocazione manifatturiera), risulta inadeguata sia
sotto il profilo degli obiettivi che sotto quello degli strumenti.
Oppure è sufficiente esaminare il dibattito sul bilancio europeo
e il modo in cui Commissione e Consiglio continuano a eludere
il nodo delle risorse proprie. I segnali positivi sul versante della
mobilitazione del risparmio privato europeo per investimenti
in beni comuni (innanzitutto reti e infrastrutture), come quelli
rappresentati dalla nascita del «Fondo Marguerite» (che unisce
l’italiana Cassa depositi e prestiti e i suoi omologhi europei),
non appaiono dunque per il momento collocati nel quadro di
una coerente strategia capace di misurarsi in modo realistico ma
ambizioso con i diversi elementi di un vero «governo economico
europeo» (tra i quali ovviamente vi è anche il contributo alla riforma
dei mercati finanziari). Solo i prossimi mesi diranno se le
potenzialità del nuovo assetto istituzionale verranno utilizzate
per consentire all’Europa di affrontare in modo adeguato la crisi
e la necessità di rilanciare il proprio sviluppo.
Anche le altre dimensioni della costruzione europea evidenziano
una contraddizione tra le esigenze di innovazione rilanciate
dal contesto interno e internazionale, le potenzialità del
nuovo quadro istituzionale e il riflesso conservatore che caratterizza
l’azione del Consiglio e della Commissione. Basti pensare,
come sottolinea Fabrizia Panzetti nel suo contributo, al
modo in cui il nuovo programma di Stoccolma varato dal Consiglio
europeo sulle priorità, gli obiettivi e gli strumenti dello
Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sostanzialmente eluda
novità fondamentali come il nuovo ruolo assegnato in questo
settore al Parlamento europeo dal trattato di Lisbona e il carattere
vincolante della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Il voto con cui il Parlamento europeo, nonostante le fortissime
pressioni esercitate sui suoi membri, ha respinto l’accordo
Swift che consentiva la cessione agli Stati Uniti dei dati sensibili
bancari ai fini di lotta al terrorismo in forme che violavano
manifestamente le leggi europee e i diritti dei cittadini, ha dimostrato
però che gli effetti del trattato di Lisbona sono assai
più profondi di quanto da molti ritenuto. E che quindi l’enfasi
sulla dimensione della sicurezza e sull’intergovernatività che caratterizza
il programma di Stoccolma dovrà fare i conti con una
dialettica interistituzionale inedita che potrebbe contribui re a
ridefinirne il profilo, rendendolo più adeguato all’esigenza di
dare maggior corpo e sostanza alla dimensione della cittadinanza
europea.
La proiezione esterna dell’Europa costituisce il terzo grande
ambito in cui la dialettica tra sfide e opportunità è particolarmente
pronunciata. Il nuovo assetto istituzionale definito dal
trattato di Lisbona coincide, infatti, con una stagione di profondi
cambiamenti sulla scena internazionale. La transizione
verso un assetto multipolare procede con tensioni e scosse che
mettono in luce come, se da un lato i vecchi equilibri economici
e politici non tengono più, dall’altro la strada per la costruzione
di un nuovo ordine internazionale sia ancora lunga e difficile.
La crisi economica e finanziaria; l’ascesa della Cina e il suo crescente
peso non solo in Asia ma in quella che i cinesi definiscono
una «grande periferia» che dal Medio Oriente si spinge
fino all’Africa; il consolidamento della dimensione statuale della
Russia e la ritrovata assertività della sua politica estera, con la
conseguente maggiore capacità di condizionare gli equilibri politici
alle sue frontiere; le crescenti tensioni a cui è sottoposto
il regime di non proliferazione (a partire dal loro vero epicentro:
il confronto tra India e Pakistan); la riscoperta della dimensione
asiatica nella politica estera giapponese e turca; la rottura
dei vecchi equilibri mediorientali e la nuova centralità regionale
dell’Iran (innescati dal tentativo della precedente amministrazione
statunitense di giocare la «carta sciita» per rivoluzionare
il vecchio status quo); la crisi politica che ha colpito in Israele le
forze consapevoli della necessità strategica della pace e, sull’altro
fronte, la scomposizione del movimento nazionale palestinese,
con il conseguente stallo del processo di pace; la persistente minaccia
del terrorismo jihadista; per non parlare dei mutamenti
in atto in America Latina e in Africa. È un quadro complesso,
che non segna solo una nuova dislocazione geografica delle
forze, ma anche un forte intreccio tra politica ed economia, tra
vecchie e nuove dimensioni della sicurezza, tra il ruolo di attori
statali e non statali.
In questo scenario, la nuova amministrazione americana è
impegnata in un ambizioso e difficile tentativo di rispondere
all’evidente «crisi di egemonia» che ha colpito gli Stati Uniti e
di correggere, con inevitabile gradualità, gli squilibri e le asimmetrie
accumulatesi dopo la fine del bipolarismo e accentuatesi
per effetto della risposta dell’amministrazione Bush all’11
settembre e più in generale del suo tentativo di consolidare
l’apparente unipolarismo post-1989 in modo unilaterale e non
cooperativo. Il tentativo (simmetrico a quello in atto sul piano
economico di diminuire gradualmente lo squilibrio strutturale
della bilancia dei pagamenti americana, l’eccesso di debito privato
e i rischi di deindustrializzazione senza mettere in pericolo
il ruolo del dollaro e il mercato dei titoli del tesoro) è di ricostruire
un’architettura multilaterale che consenta di ridurre la
sovraesposizione politico-militare statunitense e i suoi crescenti
costi economici e politici senza creare vuoti di potere e pregiudicare
la ricerca di stabilità e di sicurezza. Di qui il «reset»
nei confronti della Russia e la rinnovata centralità assegnata al
Trattato di Non Proliferazione, che non costituiscono solo una
condizione per contrastare la proliferazione delle armi di distruzione
di massa e i rischi di terrorismo nucleare, ma a loro volta
appaiono strettamente collegati allo sforzo di perseguire una
stabilizzazione del «grande Medio Oriente» su basi cooperative.
Una stabilizzazione che nelle intenzioni dovrebbe favorire una
onorevole exit strategy dall’Afghanistan e un «contenimento»
politico dell’Iran che escluda l’ipotesi di attacco israeliano, contribuendo
al tempo stesso a creare le condizioni per una ripresa
del processo di pace. Si tratta di una strategia che ha conseguito
alcuni importanti successi (la firma del nuovo trattato Start e
la Nuclear Posture Review, la riforma sanitaria, la risposta alla
crisi), ma che al tempo stesso sconta un quadro politico interno
problematico e un’evidente difficoltà a condizionare gli attori
politici regionali e non statali soprattutto nel «grande Medio
Oriente».
Questo sofferto processo verso un nuovo multipolarismo e il
tentativo dell’amministrazione Obama, non privo di contraddizioni,
di incardinarlo in una rinnovata architettura multilaterale
presentano per l’Europa al tempo stesso rischi e opportunità.
I rischi sono innanzitutto quelli di una marginalizzazione del
vecchio continente, ma anche quelli di un fallimento del tentativo
americano di «governare la transizione» in Afghanistan e in
Medio Oriente, che non potrebbe che innescare sviluppi assai
preoccupanti dal punto di vista dell’Europa e della sua sicurezza.
Le opportunità non derivano solo dal contesto molto più
propizio a una nuova Ostpolitik derivante dal nuovo approccio
americano verso la Russia, ma sono quelle offerte dall’apertura
rilevante di nuovi spazi per l’iniziativa internazionale europea e
dalla possibilità di dare vita a una rinnovata partnership strategica con gli Stati Uniti che assegni un ruolo centrale al rafforzamento
del processo di integrazione e punti alla costruzione di
un nuovo ordine democratico multilaterale.
Scongiurare i rischi e cogliere le opportunità impongono
innanzitutto volontà politica, ma richiedono anche di saper
effettivamente fare della nuova architettura istituzionale delineata
a Lisbona l’occasione per definire un assetto di governance
in grado di dare coerenza e consistenza all’azione esterna
dell’Unione. Il problema principale è quello di rafforzare la
coe renza tra le differenti dimensioni dell’azione esterna della
Ue (oltre che tra questa e la dimensione esterna delle sue politiche
interne) e di definire le relazioni e le complementarità tra
la Pesc/Psdc e la Nato, nel quadro del processo di costruzione
di una difesa comune. A questo proposito le novità introdotte
dal trattato di Lisbona sono considerevoli: non solo, infatti, la
nuova figura dell’Alto rappresentante/vicepresidente della Commissione
(oltre che presidente del Consiglio Affari Esteri) assume
la titolarità della conduzione e del coordinamento tanto
della componente intergovernativa che di quella comunitaria
dell’azione esterna dell’Unione, ma con il Servizio Europeo per
l’Azione Esterna sarà finalmente possibile unificare gli strumenti
di tale azione e coordinare la programmazione strategica degli
strumenti finanziari dell’Unione europea (che costituiscono l’elemento
più originale della sua azione internazionale) con le iniziative
in ambito Pesc. Se a tutto ciò si aggiungono le nuove disposizioni
che regolano la politica estera e di sicurezza comune
e la politica di sicurezza e difesa comune, la cooperazione strutturata
permanente e le clausole di assistenza reciproca e di solidarietà,
emerge una strumentazione istituzionale potenzialmente
in grado di far compiere un salto di qualità all’azione esterna
della Ue e di sostenerne le ambizioni di attore globale.
In questo quadro, le priorità della politica estera europea
sono facilmente individuabili: i Balcani occidentali, con la
necessità di sviluppare sempre più un approccio regionale nei
confronti del processo di allargamento e la sfida ad assumere
fino in fondo il ruolo di garante della sicurezza della regione; la
partnership orientale, concepita come ponte nei confronti della
Russia e non più diaframma (a patto di saper superare progressivamente
le divisioni interne ai 27 su questo punto); il Medio
Oriente e il Mediterraneo.
Proprio al Mediterraneo, agli scenari strategici che si stanno
aprendo nell’area e al ruolo che l’Europa ha giocato e giocherà
nel prossimo futuro, è dedicata la monografia di quest’anno.
In particolare, i due saggi di apertura si soffermano su due
fattori che sono destinati a incidere significativamente sul futuro
strategico dell’area, rappresentati, da un lato, dal rinnovamento
dello scacchiere delle alleanze nel quadro mediorientale; dall’altro,
dall’esito dell’ondata incombente di successioni al vertice,
attesa per gran parte dei paesi del Mediterraneo.
Il saggio di Fabio Nicolucci fa chiarezza sul complesso panorama
della politica mediorientale anche alla luce degli avvenimenti
che hanno caratterizzato l’area negli ultimi anni. Si tratta
di una questione di fondamentale importanza, soprattutto per
gli effetti che si avranno in termini di stabilità del Mediterraneo
nel suo complesso. Il sostanziale fallimento della politica americana
in Iraq, l’assunzione dell’Iran come potenza regionale e
l’emergere di nuovi elementi di contrapposizione basati su fattori
etnico-religiosi lasciano presagire un panorama poco rassicurante.
A complicare ulteriormente il quadro, si aggiunge una
politica americana, più promettente che in passato, ma comunque
titubante e sempre meno incisiva, a cui si contrappone la
concorrenza di altri attori che guardano a est con interesse crescente
e un’Europa che ancora non riesce a convincere.
Il saggio di Philippe Droz-Vincent si sofferma sull’ondata
di successioni che ha interessato alcuni paesi della sponda sud
(Marocco, Giordania e Siria) e che nel prossimo futuro si propagherà
nella maggior parte di questi. In una regione come il
Mediterraneo, in cui gli ultimi trent’anni ha predominato un’eccessiva
stabilità al vertice, le successioni previste potrebbero
aprire nuovi interessanti scenari. Esse potrebbero rappresentare
un’occasione per superare la situazione di immobilismo, un’opportunità
di rinnovamento politico. Sebbene non sia possibile
prevedere con esattezza gli esisti delle successioni, l’analisi condotta
da Droz Vincent sembra, comunque, ridimensionare la
portata del cambiamento. La nuova generazione al potere resterà
legata al sistema autoritario che l’ha preceduta. Se non per
via ereditaria, i nuovi leader saranno scelti nel ristretto ambito
delle elite al vertice.
In seguito a questo focus sugli scenari aperti in ambito politico,
la parte monografica del Rapporto prende in considerazione l’evoluzione delle politiche europee nell’area del Mediterraneo
presentandone le principali caratteristiche, obiettivi e
innovazioni introdotte di recente, mettendone in risalto opportunità
e limiti.
Il saggio di Dorothée Schmid, in particolare, traccia il quadro
delle politiche e del dibattito che hanno interessato l’azione
comunitaria nel Mediterraneo negli ultimi quindici anni, passando
dal partenariato euro-mediterraneo alla politica di vicinato
alla più recente Unione per il Mediterraneo. Nonostante
il rinnovamento del quadro politico di riferimento, le politiche
comunitarie nel Mediterraneo non sembrano essere state sufficientemente
incisive per affrontare le sfide e cogliere le nuove
opportunità che l’area presenta. L’obiettivo della creazione di
un’area di pace e di stabilità è lungi dall’essere realizzato. Rispetto
ai primi anni Novanta, il Mediterraneo vive gli stessi
conflitti e tensioni ancora attive (Sahara occidentale, Israele-
Palestina e Cipro), e i fattori di instabilità si sono acuiti con il
passare del tempo. Queste conclusioni sono condivise anche da
Bruno Marasà, il quale precisa come in prospettiva la stabilizzazione
del vicinato, soprattutto a sud, rimarrà centrale nelle
relazioni dell’Unione europea con la regione soprattutto con riferimento
ai nuovi equilibri geo-politici determinati dall’evoluzione
dello scacchiere delle alleanze in Medio Oriente. Secondo
l’autore, il ruolo dell’Europa nell’area dipenderà molto dalla
sua capacità di operare un rafforzamento della dimensione politica
nell’azione verso il Mediterraneo, sfruttando le opportunità
aperte in questo senso dalle innovazioni apportate dal trattato
di Lisbona. Sarà necessario, in particolare, rafforzare la capacità
dell’Unione di imporsi come attore rilevante nell’area, il che si
traduce nella capacità di esprimersi con una voce unica, di assumere
una posizione di rilievo nella pacificazione dell’area e,
in particolare, nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese,
in un’ottica di crescente collaborazione con gli Stati Uniti, sfruttando
il cambiamento di rotta inaugurato dall’amministrazione
Obama.
Allo stesso tempo, deve essere rafforzato il contributo delle
politiche comunitarie nella promozione di riforme politiche nei
paesi partner della sponda sud; obiettivo questo enunciato dalla
Dichiarazione di Barcellona e perseguito nell’ambito del paniere
politico del partenariato euro-mediterraneo. Ripreso anche dai
«Piani di azione della politica di vicinato», questo principio ha
faticato a trovare una concreta attuazione. Il saggio di Rosa Balfour
e Battistina Cugusi spiega come dietro questa impasse abbia
per lungo tempo perdurato il timore di minare la stabilità
dell’area promuovendo quei movimenti e partiti islamici che,
in molti paesi, rappresentano importanti forze di opposizione o
con largo seguito nella società. Sebbene la possibilità di dialogare
a livello politico con questi attori sia stata fortemente dibattuta,
a livello europeo non esiste una posizione univoca né
una politica comune verso tali attori.
Il contributo di Lorenzo Coslovi e Paola Monzini mostra
bene come il tema delle migrazioni trans-mediterranee sia considerato
tra i principali fattori di instabilità in provenienza dalla
sponda sud del Mediterraneo. L’analisi dell’evoluzione delle
politiche bilaterali condotte negli anni Ottanta e Novanta, e, in
seguito, delle politiche europee svela il prevalere di un approccio
restrittivo verso le migrazioni dai paesi della sponda sud del
Mediterraneo. Il saggio spiega anche come l’adozione di un approccio
di questo tipo abbia acuito il sentimento di insicurezza
piuttosto che attenuarlo. Esso, infatti, ha contribuito a generare
conseguenze inattese, tra cui la diversione dei flussi su rotte alternative,
ma più pericolose, con l’aumento del ruolo della malavita
nella gestione delle nuove rotte, e ha contribuito a rendere
a loro volta i paesi della sponda sud sempre più paesi di transito
dei flussi migratori provenienti dall’Africa sub-sahariana.
Il saggio di Frédéric Blanc e Nathalie Roux si sofferma sugli
aspetti economici delle relazioni euro-mediterranee e soprattutto
sulle dinamiche degli scambi delineando l’evoluzione che il sistema
di interdipendenza tra le due sponde del Mediterraneo
ha conosciuto dal 1995 a oggi. Come noto, la creazione di una
zona di libero scambio ha rappresentato il perno della strategia
fissata a Barcellona, in cui il rafforzamento dell’interdipendenza
economica rappresenta il volano attraverso il quale stimolare lo
sviluppo dei paesi della sponda sud. Dal 1995, un importante
risultato raggiunto dal partenariato euro-mediterraneo è stato
quello di aver effettivamente contribuito alla maggiore apertura
internazionale dei partner della sponda sud, soprattutto sul
fronte degli investimenti e degli scambi di servizi. Gli autori sottolineano,
tuttavia, come il partenariato non abbia raggiunto i
suoi obiettivi principali. Le promesse di un dinamico mercato
pan-mediterraneo, che alimentavano la visione tecnocratica del
partenariato euro-mediterraneo prima maniera, sono naufragate
nello scarso sviluppo degli scambi sub-regionali (fermi dal 1995
al 5%), in scambi caratterizzati da un’evidente asimmetria (solo
il 9% delle esportazioni extra-Ue e il 6% degli Ide extra-Ue
proviene dai paesi della sponda sud), in una scarsa qualità degli
scambi stessi (forte polarizzazione su prodotti di specializzazione),
in una integrazione produttiva marginale.
Come mostra Mustafa K. Faid nel suo saggio, anche il settore
energetico non è al riparo dalla relazione asimmetrica che
caratterizza gli scambi commerciali nell’area mediterranea: così,
mentre i paesi europei sono i principali paesi di sbocco di questa
tipologia di esportazione (il 70% delle esportazioni di petrolio
e il 90% di quelle di gas dell’Africa del nord sono destinati
all’Europa), le importazioni dai paesi della sponda sud, seppur
rilevanti, soddisfano solo il 15% del fabbisogno energetico dei
paesi europei, secondo una strategia di diversificazione delle
fonti di approvvigionamento. In prospettiva, il settore energetico
sarà comunque determinante per il futuro dell’area e delle relazioni
euro-mediterranee; un rafforzamento della cooperazione
in questo campo assume, dunque, rilevanza strategica. Diverse
saranno le sfide all’ordine del giorno, prima fra tutte quella che
vede l’area di fronte a una maggiore competizione per le risorse:
da un lato cresceranno i consumi energetici dei partner della
sponda sud (il fabbisogno dovrebbe crescere di circa il 40% nei
prossimi 15 anni); e dall’altro gli ingenti investimenti necessari
per farvi fronte potrebbero provocare tensioni sul piano della
disponibilità.
Il saggio di Hanaa Ebeid, infine, presenta il punto di vista
arabo sul ruolo dell’Unione europea e sulle politiche comunitarie
nel Mediterraneo. Basandosi sui media e prendendo come
fonte soprattutto la carta stampata, l’analisi svela una visione
dell’Europa complessa e sfaccettata, dove l’interesse crescente
per il partenariato economico si mescola con un sentimento di
insoddisfazione per i risultati di politiche che sembrano essere
tagliate più per l’interesse della sponda nord; dove la visione romantica
dell’Europa come potenza mondiale rispettosa del diritto
internazionale deve fare i conti con le difficoltà della stessa
di assumere una posizione decisiva sul conflitto israelo-palestinese
o di intraprendere un’azione indipendente dagli Stati Uniti;
dove l’ammirazione per i risultati raggiunti nel processo di integrazione
europea si scontra con gli episodi di discriminazione
ai danni di migranti della sponda sud, che molta eco hanno nei
paesi di provenienza.
Quella proposta nella monografia è dunque un’analisi ad
ampio raggio che concepisce l’integrazione tra le dimensioni
economica, sociale e politica come l’unica chiave per consentire
all’Europa di superare i limiti della politica mediterranea di
questi anni e di cogliere le straordinarie opportunità che le trasformazioni
in atto offrono di fare del Mediterraneo una vera e
grande zona di prosperità e di pace condivisa.

 
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