prefazione
di Roberto Gualtieri e José Luis
Rhi-Sausi
Nel 2008
l’Unione europea si è trovata costretta
ad affrontare due sfide di fondo – crisi economica
e costruzione istituzionale – il cui reciproco
condizionamento e la cui evoluzione continueranno a
condizionare il processo di integrazione anche nel prossimo
futuro, e che costituiscono il filo conduttore delle
rubriche del Rapporto 2009. In questa ottica, gli altri
aspetti dell’agenda europea considerati nel volume
– la politica estera; lo Spazio di libertà,
sicurezza e giustizia; l’evoluzione elettorale
– possono offrire indicazioni importanti rispetto
a processi che possono accelerare o rallentare il percorso
dell’integrazione.
L’esplosione della crisi finanziaria e il suo
impatto recessivo sull’economia mondiale hanno
profondamente segnato l’agenda europea del 2008.
Per questo motivo la rubrica curata da Fabio Sdogati
dedica un’approfondita analisi a quella «svolta
epocale», prendendo in considerazione l’insieme
dell’economia internazionale e in particolare
esaminando i fattori salienti che spiegano la genesi
della crisi e il suo impatto sulle principali macroregioni.
È in questo contesto che possono essere analizzate
le conseguenze della crisi e i provvedimenti per contrastarla
adottati dall’Unione europea. Il 2008 è
caratterizzato, nell’analisi di Sdogati, dal «ritorno
sulla scena mondiale di un protagonista negato per anni:
la spesa pubblica» e dal prepotente riaffermarsi
delle politiche fiscali di fronte all’impotenza
totale della politica monetaria. In questa lettura,
la diagnosi riduttiva che riconduce la genesi della
crisi ai soli mutui subprime perde rilevanza, e Sdogati
traccia gli elementi necessari per una più efficace
exit strategy dalla crisi mondiale, valutando l’altissimo
costo che implicano i comportamenti nazionalistici adottati
dai paesi membri dell’Unione europea. I segnali
positivi a questo riguardo – come l’avvicinamento
fra la Germania e la Francia – sono ancora molto
deboli anche perché «la dimensione del
compito è tale che la classe dirigente europea
dovrà veramente mostrare di potersi liberare
dalle costrizioni nazionalistiche di cui è stata
prigioniera dalla data del grande allargamento del 2004
in avanti».
Sul fronte della costruzione istituzionale dell’Ue,
Sandro Guerrieri spiega che ci troviamo nel mezzo di
una transizione fondamentale per la nascita di un’Unione
più rappresentativa e più efficace. Transizione
che passa per una revisione dei meccanismi di legittimazione
delle istituzioni europee. Per questa ragione, le sfide
e le risposte alla crisi economica mondiale saranno
anch’esse cruciali per valutare la tenuta del
processo di integrazione. Il processo di ratifica del
Trattato di Lisbona si è ancora una volta dimostrato
problematico dopo l’esito negativo del referendum
irlandese, anche se sono stati evitati gli esiti di-rompenti
provocati dalla bocciatura del Trattato costituzionale.
L’analisi dei meccanismi decisionali – via
parlamentare/via referendaria – costituisce uno
dei punti qualificanti della rubrica di questa edizione
del Rapporto.
Per quanto riguarda la politica estera, analizzata da
Rosa Balfour, il 2008 ci mostra un’Unione europea
fortemente concentrata sull’area del vicinato:
allargamento e nuove frontiere. L’Ue si consolida
come attore regionale capace di esportare stabilità
e di «rispondere tempestivamente alle crisi».
Tuttavia, malgrado la latitanza sulla scena internazionale
degli Stati Uniti abbia offerto a Bruxelles ampi margini
di manovra per intervenire su alcune crisi potenzialmente
dirompenti, l’Unione è stata sostanzialmente
incapace di proporre nuovi approcci. Questa doppia lettura
dell’azione internazionale dell’Ue –
tempestività negli interventi e scarsa forza
nel proporre nuove forme di gestione delle relazioni
internazionali – è stata accompagnata da
una dicotomia anche nella conduzione della sua politica
estera. Anche qui, infatti, si riscontrano elementi
positivi nell’azione dell’Ue in quanto potenza
regionale, sia al suo interno che nelle aree di prossimità
(dall’Europa dell’est al Mediterraneo, passando
per l’area balcanica); ma anche una scarsa capacità
di proposta come potenza globale, sia nei confronti
delle crisi più acute, Afghanistan in primis,
sia riguardo l’agenda dell’economia internazionale.
Sono ancora numerosi i temi aperti – commercio,
ambiente, cooperazione internazionale – sui quali
l’Unione non esercita una leadership chiara e
attiva. Persino le agende bilaterali con aree e paesi
emergenti non hanno fatto passi avanti nell’anno
trascorso.
L’agenda delle elezioni europee nel 2008, analizzata
da Paolo Borioni, è stata caratterizzata dalle
contrastanti indicazioni politiche emerse dalle consultazioni
di Spagna e Italia: l’afferma-zione, sebbene non
travolgente, dei socialisti nel primo caso, e il ritorno
trionfale del centro-destra, accompagnato da «un
vero tracollo del centro-sinistra» nel secondo.
L’analisi comparata si sofferma anche sui casi
dell’Austria, della Slovenia e della Romania.
Un tema su cui Borioni offre interessanti elementi di
analisi è quello dell’ipotetico «declino
socialdemocratico»: i dati elettorali comparati
mostrano infatti un quadro molto più composito
e articolato rispetto a quella sbrigativa diagnosi,
ma soprattutto «gli elementi capaci di gettare
luce su tutta la problematica del “declino socialdemocratico”»
andranno verificati in seguito alla svolta rappresentata
dall’elezione di Obama.
Infine, Fabrizia Panzetti, nella rubrica dedicata allo
Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ci
spiega come il 2008 sia stato caratterizzato, anche
in questo campo, da una transizione incentrata sulla
preparazione delle disposizioni previste dal Trattato
di Lisbona in materia di giustizia e affari interni.
Rilevante in proposito è stato il tavolo interistituzionale
informale, promosso dal Parlamento europeo insieme alla
Commissione e al Consiglio, allo scopo di definire un
meccanismo adeguato per l’adozione degli atti
legislativi che riguardano la cooperazione giudiziaria
in materia penale, la cooperazione di polizia e la politica
di ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi.
Un altro importante elemento di transizione nello Spazio
di libertà, sicurezza e giustizia interna, emerso
nel 2008, ha riguardato il Programma pluriennale dell’Aia
(2004-2009) che ha definito le priorità politiche
dell’azione dell’Ue. Da una parte, si è
discussa la valutazione dell’attuazione del Programma
e dall’altra si è aperta una riflessione
sulle priorità del prossimo Programma 2010-2014.
Di particolare interesse è stata la creazione
del Future Group, il quale – ci ricorda la Panzetti
– «pur contrassegnato dalla mancanza di
trasparenza nella conduzione dei lavori ha permesso
di associare il Parlamento europeo, seppure in un ruolo
consultivo». Le priorità strategiche individuate
dal Future Group si incentrano sulla ricerca di un equilibrio
tra mobilità, sicurezza e privacy. La rubrica,
quindi, dedica particolare attenzione alle tematiche
dell’immigrazione, delle frontiere e dell’asilo.
Quest’anno la monografia del Rapporto, curata
da Domenico Mario Nuti, è dedicata ad un bilancio
del processo di transizione post-socialista in Europa
centro-orientale a vent’anni dall’89 e ad
un esame dei principali nodi (la sicurezza e l’ener-gia)
che sono attualmente al centro dei rapporti tra l’Ue
e la Russia. Questa impostazione deriva dalla convinzione
che la definizione di una politica unitaria e coerente
nei confronti della Russia e degli altri paesi post-socialisti
collocati ai propri confini orientali costituisca per
l’Ue una sfida non più eludi-bile, e che
essa non possa prescindere da una seria riflessione
sui caratteri politici ed economici della transizione
al capitalismo apertasi con il crollo del muro di Berlino
e con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’intreccio
tra l’elaborazione di una nuova «Ostpolitik»
europea e un’analisi di carattere storico-po-litico
del ventennio 1989-2008 è reso d’altronde
particolarmente stringente dall’esplodere della
crisi economico-finanziaria. Se infatti da un lato la
crisi è destinata ad avere un impatto particolarmente
pesante in quasi tutti i paesi post-socialisti (sia
interni che esterni all’Ue), rendendo ancora più
urgente e impegnativo il compito di definire una politica
europea nei loro confronti, al tempo stesso, mettendo
radicalmente in discussione alcuni dei principali presupposti
politici ed economici su cui si è fondata la
transizione al capitalismo, impone di fondare una rinnovata
azione dell’Europa su un ripensamento critico
di tali paradigmi e del modo con cui hanno concretamente
operato nel corso del ventennio.
Da questo punto di vista la vicenda della transizione
in Russia, oltre ad essere ovviamente la più
rilevante sul piano politico ed economico, appare emblematica.
Come mette in evidenza Mario Nuti nel suo saggio, la
varietà dei risultati ottenuti dalla transizione
economica post-socialista nei diversi paesi dell’Eu-ropa
centro-orientale e in Asia dimostra da un lato l’esistenza
di modelli alternativi a quello iper-liberale adottato
in Russia, e dall’altro è strettamente
connessa alla natura, all’ampiezza e alla profondità
delle riforme realizzate prima dell’89. Nonostante
ciò, in Russia e negli organismi economici internazionali
ha prevalso una concezione di tipo dicotomico, fortemente
ideologica, del rapporto tra socialismo e capitalismo
(e tra stato e mercato), che assolutizzando il modello
sovietico di economia pianificata edificato da Stalin
a partire dal 1928 e quello iper-liberale teorizzato
dalle correnti neomarginaliste affermatesi negli anni
Ottanta nel quadro della «rivoluzione neo-conservatrice»,
ha concepito la transizione all’economia di mercato
come un passaggio ineluttabile e meccanico dal primo
al secondo modello. Questa visione è stata peraltro
favorita dalla presenza di corposi ostacoli, prevalentemente
di natura politica e culturale, all’introduzione
di un «socialismo di mercato» del tipo di
quello realizzato in Cina e in Vietnam (e per alcuni
versi anche in Bielorussia e in Uzbekistan). Tali ostacoli
erano costituiti dalla riluttanza che fino all’ultimo
la leadership sovietica manifestò nei confronti
della liberalizzazione del commercio estero e della
privatizzazione anche solo parziale delle imprese, e
soprattutto dal fatto che essa si dimostrò incapace
di introdurre prezzi di mercato (pienamente compatibili
con una pianificazione statale della produzione) per
eliminare l’eccesso di domanda che era alla base
dell’inflazione repressa: un’incapacità
derivante dall’inadeguatezza della macchina amministrativa
a raggiungere quel risultato passando per l’introduzione
di un sistema di prezzi a due livelli quale quello sperimentato
in Cina negli anni Ottanta, e dal timore di percorrere
la strada, ritenuta politicamente troppo impopolare,
di una conversione della moneta del tipo di quella realizzata
in Urss alla metà degli anni Cinquanta. In assenza
delle condizioni (anch’esse innanzitutto politiche
e culturali) per una transizione al capitalismo ispirata
al modello sociale europeo, la Russia ha preso così
la strada di una fulminea e pressoché completa
deregolamentazione dei mercati delle merci, dei capitali
e del lavoro, che ha avuto un impatto fortemente recessivo
sull’economia e violentemente disgregatore sullo
stato e sulla società.
Per di più, come rileva Phil Hanson nel suo contributo
alla monografia, rispetto al modello di shock therapy
liberista adottato nella transizione polacca, in Russia
la liberalizzazione dei prezzi (che in pochi mesi ha
portato l’inflazione al 2,520%) e la privatizzazione
massiccia (di cui hanno beneficiato i nuovi oligarchi)
non si sono accompagnate ad una disciplina macroeconomica
che imponesse effettivi vincoli di bilancio alle imprese,
le quali poterono così beneficiare di massicce
esenzioni fiscali e di vari sostegni di natura non monetaria.
Il risultato fu, in un contesto fortemente recessivo,
la mancata ristrutturazione delle imprese e l’aumento
del debito pubblico, che contribuì alla crisi
finanziaria del 1998 innescata dalla crisi asiatica
e dal calo del prezzo del petrolio. In questo quadro,
il 1998 ha rappresentato uno spartiacque, perché
la forte svalutazione del rublo e il successivo aumento
del greggio innescarono una robusta crescita economica.
Con la presidenza Putin l’ispirazione di fondo
della politica economica è rimasta di impronta
iper-liberista, ma con una maggiore coerenza sul terreno
macroeconomico. Su questa base, si è innestata
a partire dal 2003 una linea «statista»
volta a favorire, soprattutto nei settori strategici
dell’energia e dell’in-dustria militare,
lo sviluppo di «campioni nazionali» legati
direttamente o indirettamente allo stato, e ad accentuare
il controllo dei media da parte del potere politico
nel quadro di un assetto politico-istituzionale che
molti studiosi hanno definito di tipo «super-presidenzialista»
in quanto privo dei contrappesi al potere dell’esecutivo
tradizionalmente previsti dalla forma di governo presidenziale,
ma che al tempo stesso ha saputo ricostruire le fondamenta
di una statualità messa a dura prova dal crollo
dell’Unione Sovietica e dalle scelte compiute
nei primi anni Novanta. Ne è emerso un originale
modello di «economia duale» che in una fase
di forte crescita dell’economia mondiale e di
alto prezzo delle materie prime ha saputo garantire
elevati tassi di sviluppo, ma che ora deve misurarsi
con gli effetti di una crisi globale che rischia di
avere ripercussioni pesanti sul sistema economico, sugli
equilibri finanziari e sulla coesione sociale e politica,
facendo emergere i limiti e le contraddizioni irrisolte
della transizione post-comunista della Russia.
Se la vulnerabilità della Russia alla crisi sembra
dipendere innanzitutto dal peggioramento delle ragioni
di scambio connesso alla riduzione del prezzo delle
materie prime, quella dei paesi post-socialisti dell’Europa
orientale entrati nell’Ue e dei candidati o potenziali
candidati dei Balcani è legata invece alle caratteristiche
della loro bilancia dei pagamenti (cioè del loro
sistema economico e della sua collocazione internazionale).
Come mostra nel suo saggio Milica Uvalic, questi paesi
presentano con poche eccezioni un forte deficit commerciale
di tipo strutturale (che, come sottolinea Fabio Sdogati
nella sua rubrica, in questi anni ha costituito per
i paesi dell’euro un significativo stimolo alla
domanda di beni e servizi), compensato da un afflusso
di capitali esteri sia sotto forma di investimenti diretti
che di investimenti finanziari di portafoglio e di indebitamento
sui mercati internazionali. Ciò li rende particolarmente
sensibili alla contrazione del credito e al drenaggio
di capitali operato dai sistemi economici più
forti per effetto della crisi; una situazione che in
assenza di prestiti da parte delle istituzioni internazionali
potrebbe portare all’insolvenza finanziaria, anche
perché ulteriormente amplificata da altri due
fattori: il forte grado di apertura economica di questi
paesi, superiore persino a quello di molti dei vecchi
membri Ue, e il fatto che a seguito delle massicce privatizzazioni
dell’ultimo decennio il loro sistema bancario
è divenuto prevalentemente di proprietà
di banche estere.
Alla vulnerabilità finanziaria i paesi post-socialisti
dell’Eu-ropa orientale assommano d’altronde
una fragilità di natura po-litico-istituzionale.
Dei dieci nuovi membri dell’Ue la monografia esamina
il caso della Polonia e quello della Romania. La Polonia,
a cui è dedicato il contributo di Serena Giusti,
ha avuto in questi anni una crescita economica impetuosa
trainata dalla domanda e dagli investimenti europei
e ha beneficiato fortemente sia delle condizionalità
economiche, politiche e istituzionali connesse al processo
di adesione sia, dopo il 2004, dei fondi comunitari.
Tuttavia, le modalità di adeguamento all’acquis
communautaire non hanno favorito un’autonoma maturazione
del sistema politico, che si è invece venuto
modellando sulle crescenti fratture sociali e territoriali
determinate dal tipo di modernizzazione economica neo-liberale
perseguita fin dal 1989. La persistente distanza della
Polonia dal modello sociale europeo si riflette dunque
nella debolezza strutturale del sistema dei partiti
e nella fragilità e negli squilibri di quello
istituzionale; nella difficile elaborazione di un passato
che riemerge costantemente in un uso strumentale della
politica della memoria; nella contraddizione tra la
robusta integrazione economico-finanziaria con l’area
dell’euro ed un riflesso anti-tedesco e anti-russo
che ha spinto ad un marcato allineamento con gli Stati
Uniti sui temi della sicurezza. Resta da vedere se la
vittoria di Tusk e l’impatto della crisi saranno
l’occasione di una più compiuta europeizzazione
del paese o se la Polonia resterà ancora imbrigliata
in un passato che la spinge ad alimentare divisioni
all’interno dell’Eu-ropa e ad inibire la
possibile formazione di una comunità paneuropea
dall’Atlantico agli Urali.
Come mostra il saggio di Sorina Soare, in Romania non
maturò né un’alternativa riconosciuta
all’interno del partito comunista né una
vera dissidenza organizzata, e la transizione ebbe quindi
caratteristiche diverse che in Polonia e nella maggioranza
degli altri paesi dell’Europa orientale. Il vuoto
di potere determinato dall’improvvisa caduta di
Ceauéescu fu riempito da un soggetto peculiare
come il Fsn di Iliescu che, a dispetto della sua caratterizzazione
movimentista di protagonista della «rivoluzione»
rumena, ereditò gran parte della struttura organizzativa
e del personale politico del partito comunista. La convulsa
evoluzione della vita politica rumena, segnata dalla
frammentazione e dall’instabilità del sistema
dei partiti e da una parabola che, a dispetto del mutare
delle sigle e degli allineamenti internazionali, ha
riportato al centro della scena gli eredi del Fsn, evidenzia
una persistente fragilità politico-istituzionale
che accomuna la Romania agli altri paesi post-comunisti.
In questo quadro, il caso rumeno è caratterizzato
da una personalizzazione della politica e da una preminenza
dell’esecutivo sul parlamento che, ancorché
tipici dell’intera Europa orientale (dove ha prevalso
la scelta per una forma di governo semi-presidenziale)
appaiono particolarmente pronunciate. Anche in Romania
dunque la forte integrazione economico-finanziaria con
il resto dell’Europa ha innescato una vigorosa
crescita economica (anche in questo caso governata sulla
base di un’ispirazione neo-liberale), ma non ha
finora saputo colmare la persistente distanza dal modello
sociale e politico europeo, e ciò rischia di
accentuare la vulnerabilità del paese all’impatto
di una crisi che potrebbe avere pesanti contraccolpi
finanziari per la forte dipendenza dall’afflusso
di capitali dell’eurozona che caratterizza l’economia
rumena.
La monografia si sofferma poi sugli stati del «nuovo
vicinato»: l’Ucraina e la Bielorussia. Come
è messo in evidenza dal contributo di Andrew
Wilson, i due paesi possono essere considerati dei «ritardatari»
della transizione, nel senso che in entrambi l’esigenza
dello state-building ha prevalso su quella della riforma
economica e politica, e la vecchia leadership comunista
è sopravvissuta al collasso dell’Urss nel
1991 quasi intatta. Il loro percorso ha seguito tuttavia
sentieri diversi. In Ucraina, mentre sul piano economico
ha preso forma un capitalismo emergente ma ancora povero,
incompleto, dipendente e finanziariamente sotto-capitalizzato,
sul terreno politico la lunga stagione segnata dal «super-presidenzialismo»
di Leonid Kuchma è sfociata nella «rivoluzione
arancione» del 2004, che tuttavia, a dispetto
delle promesse, non ha saputo dare vita a un assetto
politico-istituzionale equilibrato, e ha mostrato il
forte grado di dipendenza del paese da spinte (e interferenze)
contraddittorie connesse al sotterraneo confronto tra
Russia e Stati Uniti sugli equilibri geo-strategici
e sul controllo delle fonti (e delle rotte) energetiche
della regione. In Bielorussia, il regime «super-pre-sidenziale»
di Lukashenko si è invece progressivamente consolidato
nel quadro del crescente allineamento alla Russia e
della peculiare variante di «socialismo di mercato»
che ha caratterizzato la transizione economica post-sovietica,
anche se il recente scontro tra clan che ha visto prevalere
una nuova élite di tecnocrati segnala l’apertura
di una lotta per il potere destinata a condizionare
significativamente gli sviluppi della transizione e
i caratteri del dopo-Lukashenko.
Se l’elaborazione di una politica univoca e coerente
dell’Ue verso l’Ucraina e la Bielorussia
appare ancora lontana (nonostante le ambizioni della
Eastern Partnership proposta dalla Polonia e dalla Svezia),
e in ultima analisi dipendente dalla strategia che l’Europa
adotterà nei confronti della Russia, i Balcani
rappresentano un’area rispetto alla quale l’evidente
interesse strategico europeo si è tradotto invece
in una proposta politica definita: il processo di stabilizzazione
e associazione elaborato all’inizio del 2000 e
concepito come tappa preliminare per l’in-gresso
nell’Unione dei paesi della regione. Tuttavia,
nonostante l’allargamento verso quest’area
abbia dei costi relativamente modesti ed offra invece
grandi benefici in termini di stabilità politica
e di opportunità economiche, il processo di adesione
procede con molte difficoltà. Il saggio di Renzo
Travaglino analizza questi problemi, che appaiono in
primo luogo di natura politico-istituzionale, visto
che tutti i paesi presentano strutture statali deboli
(e in alcuni i casi estremamente complesse) e classi
politiche con visione a breve termine e scarso senso
della cosa pubblica (particolarmente preoccupante appare
la situazione in quel vero e proprio «stato fallito»
a base etnica che è la Bosnia Erzegovina). In
questo quadro, la strategia imperniata sul processo
di stabilizzazione e associazione si è rivelata
finora incapace di avere un adeguato impatto trasformativo,
e dovrebbe essere rivista offrendo prospettive di adesione
più concrete e accompagnate da risorse pre-adesione
più consistenti, così da rendere il processo
di integrazione il tema dominante dell’agenda
politica di ciascun paese.
La parte finale della monografia affronta il problema
cruciale dei rapporti tra l’Ue e la Russia. Come
sottolinea Marcello Colitti nel suo saggio, una seria
riflessione sull’argomento non può prescindere
dal dato di fondo che l’Europa e la Russia stanno
sempre più diventando un’unica area economica,
caratterizzata da una forte complementarità fondata
sullo scambio tra manufatti (innanzitutto macchinari)
e materie prime (in primo luogo idrocarburi). L’abbondanza
delle riserve russe di gas e petrolio e i persistenti
problemi logistici e tecnologici che caratterizzano
l’industria dell’energia di quel paese richiedono
iniziative di cooperazione euro-russe volte alla modernizzazione
e al potenziamento del settore e a stabilizzare il ruolo
di fornitore di lungo periodo della Russia anche rispetto
alla possibile concorrenza della domanda cinese di energia.
In questo quadro, il radicamento e la verticalizzazione,
attraverso l’integrazione a valle, delle imprese
energetiche russe sul mercato europeo andrebbero favorite
invece di essere ostacolate, accompagnandole con iniziative
volte a tutelare la concorrenza tra gli operatori. Ciò
richiede però la chiara volontà politica
di dare vita a una zona economica integrata con la Russia,
e la realizzazione di strumenti istituzionali adeguati
a rendere più unitaria ed efficace la politica
energetica dell’Ue.
Questo obiettivo non potrà essere però
raggiunto se non verranno contestualmente superati i
problemi politici che hanno caratterizzato le relazioni
euro-russe sul terreno della sicurezza, che sono al
centro del contributo di Roberto Menotti, con cui si
chiude la monografia. Alla base di tali problemi vi
è innanzitutto la convinzione russa che i paesi
occidentali abbiano violato gli accordi definiti nei
primi anni Novanta al momento della dissoluzione dell’Unione
Sovietica e puntino all’isolamento del paese.
La crisi georgiana ha mostrato come questa percezione
(peraltro tutt’altro che infondata) può
portare a un ritorno alla politica di potenza nei confronti
dei propri vicini (anche se occorre ricordare che l’uso
della forza è iniziato da parte georgiana). In
ogni caso, in questa circostanza la reazione europea
è stata equilibrata ed ha contribuito ad evitare
una escalation militare e a ristabilire un clima sereno
tra la Russia e l’Europa. Certo, permane il rischio
che le complesse dinamiche politiche dei paesi postsovietici,
intrecciandosi con la riaffermazione del peso russo,
con le aspirazioni europee ad una politica di vicinato
(e con le iniziative statunitensi nella regione), determinino
una spirale di sfiducia e insicurezza. Ma l’atteggiamento
della nuova amministrazione americana e le spinte oggettive
a un rafforzamento della cooperazione tra l’Ue
e Mosca sul terreno della sicurezza e su quello energetico
possono indurre a un cauto ottimismo circa la possibilità
dello sviluppo di un nuovo multilateralismo fondato
su un «concerto delle potenze» che funga
da cornice entro cui una rinnovata partnership euro-russa
possa prendere corpo e definire strumenti adeguati e
obiettivi realistici. Ponendo così le premesse
per indirizzare la transizione post-comunista su binari
più solidi di quelli sui quali essa è
stata collocata dopo l’89, nella lunga stagione,
ormai conclusa, dominata dal paradigma neo-liberale
e dell’unilateralismo della potenza americana.
|