RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE EUROPEA
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Rapporto 2009 sull'integrazione europea
della Fondazione Istituto Gramsci e del CeSPI
L'EUROPA E LA RUSSIA A
VENT'ANNI DALL'89

a cura di Roberto Gualtieri e Luis Rhi-Sausi
Il Mulino, Bologna 2009

p. 324, € 25,00
ISBN 978-88-15-13165-2

prefazione
di Roberto Gualtieri e José Luis Rhi-Sausi

Nel 2008 l’Unione europea si è trovata costretta ad affrontare due sfide di fondo – crisi economica e costruzione istituzionale – il cui reciproco condizionamento e la cui evoluzione continueranno a condizionare il processo di integrazione anche nel prossimo futuro, e che costituiscono il filo conduttore delle rubriche del Rapporto 2009. In questa ottica, gli altri aspetti dell’agenda europea considerati nel volume – la politica estera; lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; l’evoluzione elettorale
– possono offrire indicazioni importanti rispetto a processi che possono accelerare o rallentare il percorso dell’integrazione.
L’esplosione della crisi finanziaria e il suo impatto recessivo sull’economia mondiale hanno profondamente segnato l’agenda europea del 2008. Per questo motivo la rubrica curata da Fabio Sdogati dedica un’approfondita analisi a quella «svolta epocale», prendendo in considerazione l’insieme dell’economia internazionale e in particolare esaminando i fattori salienti che spiegano la genesi della crisi e il suo impatto sulle principali macroregioni. È in questo contesto che possono essere analizzate le conseguenze della crisi e i provvedimenti per contrastarla adottati dall’Unione europea. Il 2008 è caratterizzato, nell’analisi di Sdogati, dal «ritorno sulla scena mondiale di un protagonista negato per anni: la spesa pubblica» e dal prepotente riaffermarsi delle politiche fiscali di fronte all’impotenza totale della politica monetaria. In questa lettura, la diagnosi riduttiva che riconduce la genesi della crisi ai soli mutui subprime perde rilevanza, e Sdogati traccia gli elementi necessari per una più efficace exit strategy dalla crisi mondiale, valutando l’altissimo costo che implicano i comportamenti nazionalistici adottati dai paesi membri dell’Unione europea. I segnali positivi a questo riguardo – come l’avvicinamento fra la Germania e la Francia – sono ancora molto deboli anche perché «la dimensione del compito è tale che la classe dirigente europea dovrà veramente mostrare di potersi liberare dalle costrizioni nazionalistiche di cui è stata prigioniera dalla data del grande allargamento del 2004 in avanti».
Sul fronte della costruzione istituzionale dell’Ue, Sandro Guerrieri spiega che ci troviamo nel mezzo di una transizione fondamentale per la nascita di un’Unione più rappresentativa e più efficace. Transizione che passa per una revisione dei meccanismi di legittimazione delle istituzioni europee. Per questa ragione, le sfide e le risposte alla crisi economica mondiale saranno anch’esse cruciali per valutare la tenuta del processo di integrazione. Il processo di ratifica del Trattato di Lisbona si è ancora una volta dimostrato problematico dopo l’esito negativo del referendum irlandese, anche se sono stati evitati gli esiti di-rompenti provocati dalla bocciatura del Trattato costituzionale. L’analisi dei meccanismi decisionali – via parlamentare/via referendaria – costituisce uno dei punti qualificanti della rubrica di questa edizione del Rapporto.
Per quanto riguarda la politica estera, analizzata da Rosa Balfour, il 2008 ci mostra un’Unione europea fortemente concentrata sull’area del vicinato: allargamento e nuove frontiere. L’Ue si consolida come attore regionale capace di esportare stabilità e di «rispondere tempestivamente alle crisi». Tuttavia, malgrado la latitanza sulla scena internazionale degli Stati Uniti abbia offerto a Bruxelles ampi margini di manovra per intervenire su alcune crisi potenzialmente dirompenti, l’Unione è stata sostanzialmente incapace di proporre nuovi approcci. Questa doppia lettura dell’azione internazionale dell’Ue – tempestività negli interventi e scarsa forza nel proporre nuove forme di gestione delle relazioni internazionali – è stata accompagnata da una dicotomia anche nella conduzione della sua politica estera. Anche qui, infatti, si riscontrano elementi positivi nell’azione dell’Ue in quanto potenza regionale, sia al suo interno che nelle aree di prossimità (dall’Europa dell’est al Mediterraneo, passando per l’area balcanica); ma anche una scarsa capacità di proposta come potenza globale, sia nei confronti delle crisi più acute, Afghanistan in primis, sia riguardo l’agenda dell’economia internazionale. Sono ancora numerosi i temi aperti – commercio, ambiente, cooperazione internazionale – sui quali l’Unione non esercita una leadership chiara e attiva. Persino le agende bilaterali con aree e paesi emergenti non hanno fatto passi avanti nell’anno trascorso.
L’agenda delle elezioni europee nel 2008, analizzata da Paolo Borioni, è stata caratterizzata dalle contrastanti indicazioni politiche emerse dalle consultazioni di Spagna e Italia: l’afferma-zione, sebbene non travolgente, dei socialisti nel primo caso, e il ritorno trionfale del centro-destra, accompagnato da «un vero tracollo del centro-sinistra» nel secondo. L’analisi comparata si sofferma anche sui casi dell’Austria, della Slovenia e della Romania. Un tema su cui Borioni offre interessanti elementi di analisi è quello dell’ipotetico «declino socialdemocratico»: i dati elettorali comparati mostrano infatti un quadro molto più composito e articolato rispetto a quella sbrigativa diagnosi, ma soprattutto «gli elementi capaci di gettare luce su tutta la problematica del “declino socialdemocratico”» andranno verificati in seguito alla svolta rappresentata dall’elezione di Obama.
Infine, Fabrizia Panzetti, nella rubrica dedicata allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ci spiega come il 2008 sia stato caratterizzato, anche in questo campo, da una transizione incentrata sulla preparazione delle disposizioni previste dal Trattato di Lisbona in materia di giustizia e affari interni. Rilevante in proposito è stato il tavolo interistituzionale informale, promosso dal Parlamento europeo insieme alla Commissione e al Consiglio, allo scopo di definire un meccanismo adeguato per l’adozione degli atti legislativi che riguardano la cooperazione giudiziaria in materia penale, la cooperazione di polizia e la politica di ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi. Un altro importante elemento di transizione nello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia interna, emerso nel 2008, ha riguardato il Programma pluriennale dell’Aia (2004-2009) che ha definito le priorità politiche dell’azione dell’Ue. Da una parte, si è discussa la valutazione dell’attuazione del Programma e dall’altra si è aperta una riflessione sulle priorità del prossimo Programma 2010-2014. Di particolare interesse è stata la creazione del Future Group, il quale – ci ricorda la Panzetti – «pur contrassegnato dalla mancanza di trasparenza nella conduzione dei lavori ha permesso di associare il Parlamento europeo, seppure in un ruolo consultivo». Le priorità strategiche individuate dal Future Group si incentrano sulla ricerca di un equilibrio tra mobilità, sicurezza e privacy. La rubrica, quindi, dedica particolare attenzione alle tematiche dell’immigrazione, delle frontiere e dell’asilo.
Quest’anno la monografia del Rapporto, curata da Domenico Mario Nuti, è dedicata ad un bilancio del processo di transizione post-socialista in Europa centro-orientale a vent’anni dall’89 e ad un esame dei principali nodi (la sicurezza e l’ener-gia) che sono attualmente al centro dei rapporti tra l’Ue e la Russia. Questa impostazione deriva dalla convinzione che la definizione di una politica unitaria e coerente nei confronti della Russia e degli altri paesi post-socialisti collocati ai propri confini orientali costituisca per l’Ue una sfida non più eludi-bile, e che essa non possa prescindere da una seria riflessione sui caratteri politici ed economici della transizione al capitalismo apertasi con il crollo del muro di Berlino e con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’intreccio tra l’elaborazione di una nuova «Ostpolitik» europea e un’analisi di carattere storico-po-litico del ventennio 1989-2008 è reso d’altronde particolarmente stringente dall’esplodere della crisi economico-finanziaria. Se infatti da un lato la crisi è destinata ad avere un impatto particolarmente pesante in quasi tutti i paesi post-socialisti (sia interni che esterni all’Ue), rendendo ancora più urgente e impegnativo il compito di definire una politica europea nei loro confronti, al tempo stesso, mettendo radicalmente in discussione alcuni dei principali presupposti politici ed economici su cui si è fondata la transizione al capitalismo, impone di fondare una rinnovata azione dell’Europa su un ripensamento critico di tali paradigmi e del modo con cui hanno concretamente operato nel corso del ventennio.
Da questo punto di vista la vicenda della transizione in Russia, oltre ad essere ovviamente la più rilevante sul piano politico ed economico, appare emblematica. Come mette in evidenza Mario Nuti nel suo saggio, la varietà dei risultati ottenuti dalla transizione economica post-socialista nei diversi paesi dell’Eu-ropa centro-orientale e in Asia dimostra da un lato l’esistenza di modelli alternativi a quello iper-liberale adottato in Russia, e dall’altro è strettamente connessa alla natura, all’ampiezza e alla profondità delle riforme realizzate prima dell’89. Nonostante ciò, in Russia e negli organismi economici internazionali ha prevalso una concezione di tipo dicotomico, fortemente ideologica, del rapporto tra socialismo e capitalismo (e tra stato e mercato), che assolutizzando il modello sovietico di economia pianificata edificato da Stalin a partire dal 1928 e quello iper-liberale teorizzato dalle correnti neomarginaliste affermatesi negli anni Ottanta nel quadro della «rivoluzione neo-conservatrice», ha concepito la transizione all’economia di mercato come un passaggio ineluttabile e meccanico dal primo al secondo modello. Questa visione è stata peraltro favorita dalla presenza di corposi ostacoli, prevalentemente di natura politica e culturale, all’introduzione di un «socialismo di mercato» del tipo di quello realizzato in Cina e in Vietnam (e per alcuni versi anche in Bielorussia e in Uzbekistan). Tali ostacoli erano costituiti dalla riluttanza che fino all’ultimo la leadership sovietica manifestò nei confronti della liberalizzazione del commercio estero e della privatizzazione anche solo parziale delle imprese, e soprattutto dal fatto che essa si dimostrò incapace di introdurre prezzi di mercato (pienamente compatibili con una pianificazione statale della produzione) per eliminare l’eccesso di domanda che era alla base dell’inflazione repressa: un’incapacità derivante dall’inadeguatezza della macchina amministrativa a raggiungere quel risultato passando per l’introduzione di un sistema di prezzi a due livelli quale quello sperimentato in Cina negli anni Ottanta, e dal timore di percorrere la strada, ritenuta politicamente troppo impopolare, di una conversione della moneta del tipo di quella realizzata in Urss alla metà degli anni Cinquanta. In assenza delle condizioni (anch’esse innanzitutto politiche e culturali) per una transizione al capitalismo ispirata al modello sociale europeo, la Russia ha preso così la strada di una fulminea e pressoché completa deregolamentazione dei mercati delle merci, dei capitali e del lavoro, che ha avuto un impatto fortemente recessivo sull’economia e violentemente disgregatore sullo stato e sulla società.
Per di più, come rileva Phil Hanson nel suo contributo alla monografia, rispetto al modello di shock therapy liberista adottato nella transizione polacca, in Russia la liberalizzazione dei prezzi (che in pochi mesi ha portato l’inflazione al 2,520%) e la privatizzazione massiccia (di cui hanno beneficiato i nuovi oligarchi) non si sono accompagnate ad una disciplina macroeconomica che imponesse effettivi vincoli di bilancio alle imprese, le quali poterono così beneficiare di massicce esenzioni fiscali e di vari sostegni di natura non monetaria. Il risultato fu, in un contesto fortemente recessivo, la mancata ristrutturazione delle imprese e l’aumento del debito pubblico, che contribuì alla crisi finanziaria del 1998 innescata dalla crisi asiatica e dal calo del prezzo del petrolio. In questo quadro, il 1998 ha rappresentato uno spartiacque, perché la forte svalutazione del rublo e il successivo aumento del greggio innescarono una robusta crescita economica. Con la presidenza Putin l’ispirazione di fondo della politica economica è rimasta di impronta iper-liberista, ma con una maggiore coerenza sul terreno macroeconomico. Su questa base, si è innestata a partire dal 2003 una linea «statista» volta a favorire, soprattutto nei settori strategici dell’energia e dell’in-dustria militare, lo sviluppo di «campioni nazionali» legati direttamente o indirettamente allo stato, e ad accentuare il controllo dei media da parte del potere politico nel quadro di un assetto politico-istituzionale che molti studiosi hanno definito di tipo «super-presidenzialista» in quanto privo dei contrappesi al potere dell’esecutivo tradizionalmente previsti dalla forma di governo presidenziale, ma che al tempo stesso ha saputo ricostruire le fondamenta di una statualità messa a dura prova dal crollo dell’Unione Sovietica e dalle scelte compiute nei primi anni Novanta. Ne è emerso un originale modello di «economia duale» che in una fase di forte crescita dell’economia mondiale e di alto prezzo delle materie prime ha saputo garantire elevati tassi di sviluppo, ma che ora deve misurarsi con gli effetti di una crisi globale che rischia di avere ripercussioni pesanti sul sistema economico, sugli equilibri finanziari e sulla coesione sociale e politica, facendo emergere i limiti e le contraddizioni irrisolte della transizione post-comunista della Russia.
Se la vulnerabilità della Russia alla crisi sembra dipendere innanzitutto dal peggioramento delle ragioni di scambio connesso alla riduzione del prezzo delle materie prime, quella dei paesi post-socialisti dell’Europa orientale entrati nell’Ue e dei candidati o potenziali candidati dei Balcani è legata invece alle caratteristiche della loro bilancia dei pagamenti (cioè del loro sistema economico e della sua collocazione internazionale). Come mostra nel suo saggio Milica Uvalic, questi paesi presentano con poche eccezioni un forte deficit commerciale di tipo strutturale (che, come sottolinea Fabio Sdogati nella sua rubrica, in questi anni ha costituito per i paesi dell’euro un significativo stimolo alla domanda di beni e servizi), compensato da un afflusso di capitali esteri sia sotto forma di investimenti diretti che di investimenti finanziari di portafoglio e di indebitamento sui mercati internazionali. Ciò li rende particolarmente sensibili alla contrazione del credito e al drenaggio di capitali operato dai sistemi economici più forti per effetto della crisi; una situazione che in assenza di prestiti da parte delle istituzioni internazionali potrebbe portare all’insolvenza finanziaria, anche perché ulteriormente amplificata da altri due fattori: il forte grado di apertura economica di questi paesi, superiore persino a quello di molti dei vecchi membri Ue, e il fatto che a seguito delle massicce privatizzazioni dell’ultimo decennio il loro sistema bancario è divenuto prevalentemente di proprietà di banche estere.
Alla vulnerabilità finanziaria i paesi post-socialisti dell’Eu-ropa orientale assommano d’altronde una fragilità di natura po-litico-istituzionale. Dei dieci nuovi membri dell’Ue la monografia esamina il caso della Polonia e quello della Romania. La Polonia, a cui è dedicato il contributo di Serena Giusti, ha avuto in questi anni una crescita economica impetuosa trainata dalla domanda e dagli investimenti europei e ha beneficiato fortemente sia delle condizionalità economiche, politiche e istituzionali connesse al processo di adesione sia, dopo il 2004, dei fondi comunitari. Tuttavia, le modalità di adeguamento all’acquis communautaire non hanno favorito un’autonoma maturazione del sistema politico, che si è invece venuto modellando sulle crescenti fratture sociali e territoriali determinate dal tipo di modernizzazione economica neo-liberale perseguita fin dal 1989. La persistente distanza della Polonia dal modello sociale europeo si riflette dunque nella debolezza strutturale del sistema dei partiti e nella fragilità e negli squilibri di quello istituzionale; nella difficile elaborazione di un passato che riemerge costantemente in un uso strumentale della politica della memoria; nella contraddizione tra la robusta integrazione economico-finanziaria con l’area dell’euro ed un riflesso anti-tedesco e anti-russo che ha spinto ad un marcato allineamento con gli Stati Uniti sui temi della sicurezza. Resta da vedere se la vittoria di Tusk e l’impatto della crisi saranno l’occasione di una più compiuta europeizzazione del paese o se la Polonia resterà ancora imbrigliata in un passato che la spinge ad alimentare divisioni all’interno dell’Eu-ropa e ad inibire la possibile formazione di una comunità paneuropea dall’Atlantico agli Urali.
Come mostra il saggio di Sorina Soare, in Romania non maturò né un’alternativa riconosciuta all’interno del partito comunista né una vera dissidenza organizzata, e la transizione ebbe quindi caratteristiche diverse che in Polonia e nella maggioranza degli altri paesi dell’Europa orientale. Il vuoto di potere determinato dall’improvvisa caduta di Ceauéescu fu riempito da un soggetto peculiare come il Fsn di Iliescu che, a dispetto della sua caratterizzazione movimentista di protagonista della «rivoluzione» rumena, ereditò gran parte della struttura organizzativa e del personale politico del partito comunista. La convulsa evoluzione della vita politica rumena, segnata dalla frammentazione e dall’instabilità del sistema dei partiti e da una parabola che, a dispetto del mutare delle sigle e degli allineamenti internazionali, ha riportato al centro della scena gli eredi del Fsn, evidenzia una persistente fragilità politico-istituzionale che accomuna la Romania agli altri paesi post-comunisti. In questo quadro, il caso rumeno è caratterizzato da una personalizzazione della politica e da una preminenza dell’esecutivo sul parlamento che, ancorché tipici dell’intera Europa orientale (dove ha prevalso la scelta per una forma di governo semi-presidenziale) appaiono particolarmente pronunciate. Anche in Romania dunque la forte integrazione economico-finanziaria con il resto dell’Europa ha innescato una vigorosa crescita economica (anche in questo caso governata sulla base di un’ispirazione neo-liberale), ma non ha finora saputo colmare la persistente distanza dal modello sociale e politico europeo, e ciò rischia di accentuare la vulnerabilità del paese all’impatto di una crisi che potrebbe avere pesanti contraccolpi finanziari per la forte dipendenza dall’afflusso di capitali dell’eurozona che caratterizza l’economia rumena.
La monografia si sofferma poi sugli stati del «nuovo vicinato»: l’Ucraina e la Bielorussia. Come è messo in evidenza dal contributo di Andrew Wilson, i due paesi possono essere considerati dei «ritardatari» della transizione, nel senso che in entrambi l’esigenza dello state-building ha prevalso su quella della riforma economica e politica, e la vecchia leadership comunista è sopravvissuta al collasso dell’Urss nel 1991 quasi intatta. Il loro percorso ha seguito tuttavia sentieri diversi. In Ucraina, mentre sul piano economico ha preso forma un capitalismo emergente ma ancora povero, incompleto, dipendente e finanziariamente sotto-capitalizzato, sul terreno politico la lunga stagione segnata dal «super-presidenzialismo» di Leonid Kuchma è sfociata nella «rivoluzione arancione» del 2004, che tuttavia, a dispetto delle promesse, non ha saputo dare vita a un assetto politico-istituzionale equilibrato, e ha mostrato il forte grado di dipendenza del paese da spinte (e interferenze) contraddittorie connesse al sotterraneo confronto tra Russia e Stati Uniti sugli equilibri geo-strategici e sul controllo delle fonti (e delle rotte) energetiche della regione. In Bielorussia, il regime «super-pre-sidenziale» di Lukashenko si è invece progressivamente consolidato nel quadro del crescente allineamento alla Russia e della peculiare variante di «socialismo di mercato» che ha caratterizzato la transizione economica post-sovietica, anche se il recente scontro tra clan che ha visto prevalere una nuova élite di tecnocrati segnala l’apertura di una lotta per il potere destinata a condizionare significativamente gli sviluppi della transizione e i caratteri del dopo-Lukashenko.
Se l’elaborazione di una politica univoca e coerente dell’Ue verso l’Ucraina e la Bielorussia appare ancora lontana (nonostante le ambizioni della Eastern Partnership proposta dalla Polonia e dalla Svezia), e in ultima analisi dipendente dalla strategia che l’Europa adotterà nei confronti della Russia, i Balcani rappresentano un’area rispetto alla quale l’evidente interesse strategico europeo si è tradotto invece in una proposta politica definita: il processo di stabilizzazione e associazione elaborato all’inizio del 2000 e concepito come tappa preliminare per l’in-gresso nell’Unione dei paesi della regione. Tuttavia, nonostante l’allargamento verso quest’area abbia dei costi relativamente modesti ed offra invece grandi benefici in termini di stabilità politica e di opportunità economiche, il processo di adesione procede con molte difficoltà. Il saggio di Renzo Travaglino analizza questi problemi, che appaiono in primo luogo di natura politico-istituzionale, visto che tutti i paesi presentano strutture statali deboli (e in alcuni i casi estremamente complesse) e classi politiche con visione a breve termine e scarso senso della cosa pubblica (particolarmente preoccupante appare la situazione in quel vero e proprio «stato fallito» a base etnica che è la Bosnia Erzegovina). In questo quadro, la strategia imperniata sul processo di stabilizzazione e associazione si è rivelata finora incapace di avere un adeguato impatto trasformativo, e dovrebbe essere rivista offrendo prospettive di adesione più concrete e accompagnate da risorse pre-adesione più consistenti, così da rendere il processo di integrazione il tema dominante dell’agenda politica di ciascun paese.
La parte finale della monografia affronta il problema cruciale dei rapporti tra l’Ue e la Russia. Come sottolinea Marcello Colitti nel suo saggio, una seria riflessione sull’argomento non può prescindere dal dato di fondo che l’Europa e la Russia stanno sempre più diventando un’unica area economica, caratterizzata da una forte complementarità fondata sullo scambio tra manufatti (innanzitutto macchinari) e materie prime (in primo luogo idrocarburi). L’abbondanza delle riserve russe di gas e petrolio e i persistenti problemi logistici e tecnologici che caratterizzano l’industria dell’energia di quel paese richiedono iniziative di cooperazione euro-russe volte alla modernizzazione e al potenziamento del settore e a stabilizzare il ruolo di fornitore di lungo periodo della Russia anche rispetto alla possibile concorrenza della domanda cinese di energia. In questo quadro, il radicamento e la verticalizzazione, attraverso l’integrazione a valle, delle imprese energetiche russe sul mercato europeo andrebbero favorite invece di essere ostacolate, accompagnandole con iniziative volte a tutelare la concorrenza tra gli operatori. Ciò richiede però la chiara volontà politica di dare vita a una zona economica integrata con la Russia, e la realizzazione di strumenti istituzionali adeguati a rendere più unitaria ed efficace la politica energetica dell’Ue.
Questo obiettivo non potrà essere però raggiunto se non verranno contestualmente superati i problemi politici che hanno caratterizzato le relazioni euro-russe sul terreno della sicurezza, che sono al centro del contributo di Roberto Menotti, con cui si chiude la monografia. Alla base di tali problemi vi è innanzitutto la convinzione russa che i paesi occidentali abbiano violato gli accordi definiti nei primi anni Novanta al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica e puntino all’isolamento del paese. La crisi georgiana ha mostrato come questa percezione (peraltro tutt’altro che infondata) può portare a un ritorno alla politica di potenza nei confronti dei propri vicini (anche se occorre ricordare che l’uso della forza è iniziato da parte georgiana). In ogni caso, in questa circostanza la reazione europea è stata equilibrata ed ha contribuito ad evitare una escalation militare e a ristabilire un clima sereno tra la Russia e l’Europa. Certo, permane il rischio che le complesse dinamiche politiche dei paesi postsovietici, intrecciandosi con la riaffermazione del peso russo, con le aspirazioni europee ad una politica di vicinato (e con le iniziative statunitensi nella regione), determinino una spirale di sfiducia e insicurezza. Ma l’atteggiamento della nuova amministrazione americana e le spinte oggettive a un rafforzamento della cooperazione tra l’Ue e Mosca sul terreno della sicurezza e su quello energetico possono indurre a un cauto ottimismo circa la possibilità dello sviluppo di un nuovo multilateralismo fondato su un «concerto delle potenze» che funga da cornice entro cui una rinnovata partnership euro-russa possa prendere corpo e definire strumenti adeguati e obiettivi realistici. Ponendo così le premesse per indirizzare la transizione post-comunista su binari più solidi di quelli sui quali essa è stata collocata dopo l’89, nella lunga stagione, ormai conclusa, dominata dal paradigma neo-liberale e dell’unilateralismo della potenza americana.

 
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