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Rapporto 2007 sull'integrazione europea
della Fondazione Istituto Gramsci e del CeSPI
PERCHÈ L'EUROPA?
a cura di José Luis Rhi-Sausi e Giuseppe Vacca
Il Mulino, Bologna 2007

p. 286, € 21,00
ISBN 978-88-15-11907-0
Introduzione
a cura di Stefano Fassina e Pier Carlo Padoan

Il nostro Rapporto sull’integrazione europea, alla sua V edizione,
va in libreria in coincidenza con le celebrazioni del cinquantesimo
anniversario della firma dei Trattati di Roma (25
Marzo 1957), istitutivi della Comunità economica europea. L’anniversario
cade in una fase difficile del processo di integrazione
europea. I giri a vuoto della Strategia di Lisbona, la bocciatura,
in Francia prima ed in Olanda poi, del Trattato costituzionale
e, successivamente, il modestissimo accordo raggiunto sulle prospettive
finanziarie 2007-2013 sono le punte di un iceberg di
smarrimento delle ragioni dell’Unione. Sotto la superficie del
mare in cui l’iceberg galleggia si intravede minaccioso il risveglio
dei populismi nazionalisti, delle paure dell’altro, delle identità
chiuse ed arroccate.
Di fronte alle sfide poste dall’integrazione dei contesti nazionali,
l’Unione europea non è stata percepita dai «suoi» cittadini
come uno strumento utile a riaffermare la cittadinanza sociale,
il pilastro distintivo della costituzione materiale costruita nei
paesi membri in mezzo secolo di vita democratica. Al contrario,
l’Unione europea è stata presentata come una sorta di cavallo
di Troia del cosmopolitismo livellatore delle identità nazionali,
come leva per far saltare i virtuosi compromessi socialdemocratici,
garanzia dei diritti individuali e collettivi. Quindi, l’Unione
non come fattore di riappropriazione del primato della politica
e di rinvigorimento della democrazia oltre la dimensione dello
stato nazionale, ma come causa di espropriazione tecnocratica
della sovranità.
In tale contesto, la scelta compiuta dal Consiglio europeo all’indomani
delle sconfitte referendarie in Francia ed Olanda, di
fare «una pausa di riflessione» non sembra contribuire a ricostruire
le condizioni per ridare, da un lato, forza alle leadership
politiche «integrazioniste» e, dall’altro, per orientare opinioni
pubbliche spaesate di fronte alle minacce esterne al benessere
economico, alla sicurezza fisica, all’identità collettiva. Tali condizioni
sono, però, necessarie e vanno costruite affinché l’Unione
possa attrezzarsi al mondo del XXI secolo.
Le difficoltà della fase attuale non vanno drammatizzate. La
portata della stagnazione in corso va misurata con il metro della
storia, non con quello della cronaca (cfr. il saggio di Telò): ci
sono state altre crisi sistemiche nel lungo cammino intrapreso
dagli integrazionisti dal dopoguerra ad oggi (in particolare, nel
1954, con il fallimento della Comunità europea di Difesa). Inoltre,
va ricordato che il processo di integrazione va avanti nella
realtà quotidiana, nonostante il blocco delle riforme istituzionali
e le conseguenze dell’allargamento sui meccanismi decisionali.
L’avanzamento inerziale dell’Unione dipende da varie cause,
interne ed esterne. In primo luogo, tra le cause interne, Manzella
ricorda i) l’ingranaggio giuridico e giurisprudenziale che
consente all’Unione di fare policy oltre la lettera dei Trattati, ii)
l’attività ordinaria della Commissione, iii) il lavorio delle tecnostrutture
a Bruxelles e nelle altre capitali, iv) l’interdipendenza
tra ordinamento giuridico comunitario e ordinamenti nazionali,
ossia la continua produzione di norme da parte di questi ultimi
e la corrispondente produzione di risposte da parte del primo.
L’integrazione poi va avanti nei fatti, anche se spesso difficili da
percepire e da attribuire all’Europa. E i fatti dicono di una condizione
di vita di tutti i giorni che sarebbe assai piu insicura e
meno confortevole dal punto di vista materiale se l’Europa «non
ci fosse».
In terzo luogo, ma non meno rilevanti, cause esterne spingono
avanti l’integrazione politica pur nella fissità del quadro
istituzionale e di governance. Ad esempio, come sottovalutare il
rilievo per l’immagine che l’Unione ha di se stessa della pronta
reazione alla crisi libanese di agosto 2006? Oppure, come scartare
la possibilità che i continui movimenti geopolitici nel settore
energetico accelerino la definizione di una politica comune
in un settore chiave per la sicurezza e la quantità/qualità della
crescita economica? Naturalmente, affinché queste possibilità si
traducano in azioni concrete, lo sforzo da compiere è rilevante e
non va sottovaluata la possibilità che, anche per carenza di leadership,
su questi come su altri temi strategici l’Europa rimanga
al di sotto delle aspettative e finiscano per prevalere soluzioni
nazionali, necessariamente di corto respiro.
Insomma, nonostante la pausa di riflessione, il motore integrazionista
gira, lentamente e a singhiozzo per l’affaticamento,
l’usura ed il carico di lavoro degli ultimi tre decenni e dell’ultimo
in particolare, ma gira. È, comunque, un andamento inadeguato
ad affrontare le sfide, i rischi e le opportunità, di fronte
agli stati del benessere e al processo di integrazione nel suo insieme.
E, poiché inadeguato a dare forza sovranazionale alla politica
e alla democrazia depotenziate nelle comunità nazionali,
lascia spazio ai motori «neo-sovranisti» di destra e di sinistra, al
ripiegamento nazionalistico, alla chiusura identitaria.
Che fare per ridare slancio al processo di integrazione politica?
Non basta puntare sulla fantasia politico-istituzionale. Non
bastano certamente escamotage giuridici, quale la pur importante
Dichiarazione annessa al Trattato costituzionale. Non bastano
neppure appelli retorici alle ragioni del passato, ossia all’Unione
come motore di pace e di sviluppo economico, in un continente
segnato da sanguinose guerre civili tra stati nazione accecati
dalla politica di potenza. Per ridare slancio al processo di integrazione
politica si deve partire da alcune domande di fondo:
perché l’Unione europea nel XXI secolo, nell’epoca dell’interdipendenza?
Serve ancora un avanzamento politico dell’Unione?
Non basta, anzi, non deve bastare in un’Unione a 27 membri,
porsi l’obiettivo (non poco ambizioso viste, ad esempio, le difficoltà
incontrate dalla Direttiva Bolkenstein) del mercato unico?
Per far andare avanti l’integrazione politica, le leadership
europee della politica, della cultura, della religione, dell’economia,
devono saperla rimotivare – a sé stesse e con le opinioni
pubbliche – sul piano etico-politico e su quello della funzionalità
economica e dei risultati concreti, per far dire ai cittadini
che l’Unione effettivamente migliora le loro condizioni di vita.
Come fecero le leadership fondatrici negli anni ’40 e ’50, è da
questo livello che si deve muovere.
L’Unione europea, quindi, per riaffermare i valori alti della
civiltà europea, filtrati attraverso le vicende terribili di secoli di
storie nazionali, in particolare delle storie del Novecento: cooperazione
e convivenza pacifica tra le comunità nazionali, diritti
di cittadinanza, equità e coesione sociale, valore sociale del
lavoro, democrazia sostantiva, affermazione della laicità dello
stato in relazione alla dimensione pubblica del sentimento religioso.
L’Unione europea, quindi, per favorire il dialogo e l’incontro
tra le culture, per cogliere le potenzialità culturali oltre
che economiche dell’integrazione dei mercati a livello globale e
le opportunità dell’interdipendenza, per contribuire ad una governance
democratica, quindi multilaterale, dell’ordine internazionale
post guerra fredda, per alimentare un ordine mondiale
capace di ridurre la povertà ed offrire possibilità di sviluppo
economico sostenibile sul piano sociale ed ambientale. L’Unione
europea, quindi, per ricostruire, in una dimensione sovranazionale,
il compromesso virtuoso tra democrazia e capitalismo, i
welfare states, definito a scala nazionale nei decenni successivi al
secondo conflitto mondiale.
In sintesi, l’Unione europea dei risultati che si legittima non
solo attraverso istituzioni e processi più aperti alla partecipazione
delle opinioni pubbliche nazionali e transnazionali, dei
parlamenti nazionali e delle autonomie subnazionali, ma anche,
forse soprattutto, attraverso istituzioni e processi in grado, lo ripetiamo,
di far arrivare ai cittadini miglioramenti concreti, siano
essi legati alla sicurezza, alla vita materiale, alle possibilità di occupazione
per sé e per i propri figli. In fondo, su questo terreno,
le difficoltà della politica europea sono le stesse difficoltà
della politica nazionale in molti dei paesi membri dell’Unione.
Là dove la politica non è in grado di rispondere alle domande
dei cittadini inevitabilmente diventa astratta e distante, perde legittimità,
rischia di lasciare spazio a soluzioni oscure e oggettivamente
reazionarie.
Per far ripartire la marcia integrazionista è necessario un
pensiero che assuma come fondativo dell’agire politico il valore
dell’incontro e del dialogo tra le civiltà. A tal fine, è di grande
utilità tornare alle parole di De Gasperi ricordate da Tonini:
è essenziale attingere al liberalismo, al socialismo, al personalismo
quali componenti, tutte insostituibili perché nessuna autosufficiente,
del pensiero nuovo che serve alla costruzione dell’Europa Unita.
Un’Europa nella quale le radici cristiane devono essere assunte
non per «introdurre un criterio confessionale esclusivo
nell’apprezzamento della nostra storia». Ma
soltanto per parlare del retaggio europeo comune, di quella morale
unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana
col suo fermento di fraternità evangelica, col suo diritto ereditato dagli
antichi, col suo culto della bellezza affinatosi attraverso i secoli, con la
sua volontà di verità e giustizia acuita da un’esperienza bimillenaria.
Per far ripartire la marcia integrazionista, è necessaria, inoltre,
un’analisi che riconosca i vantaggi già colti e le potenzialità
da cogliere dell’integrazione globale dei mercati e delle comunità
nazionali. Un’analisi che, al tempo stesso, riconosca la dimensione
storica, quindi reversibile di tale integrazione (come
avvenuto all’inizio del Novecento, con le politiche che poi portarono
ai due conflitti mondiali) e i rischi connessi alle derive
nazionaliste. Un’analisi che sottolinei le crescenti difficoltà, sopratutto
per le culture progressiste, a puntellare l’attuale ordine
mondiale segnato dal cosmopolitismo dell’economia e dal nazionalismo
della politica.
In tale contesto analitico, le contraddizioni e gli effetti negativi
dell’integrazione globale delle comunità nazionali, in particolare,
come ricorda Andriani, l’aumento delle disuguaglianze
ed il ripiegamento delle aspettative e delle condizioni di vita
delle classi medie nei paesi sviluppati (non a caso sopratutto
fuori dall’Europa), non devono far perdere equilibrio alla lettura
storica ed economica della fase in corso: l’integrazione nei
mercati globali come potente fattore di riduzione della povertà
(circa 500 milioni di persone nell’ultimo quarto di secolo), come
condizione per l’innalzamento della crescita potenziale (oltre il
4% l’anno nell’ultimo quinquennio), come vettore di contaminazione
culturale e di riconoscimento reciproco tra civiltà storicamente
separate o antagoniste. Certamente, l’Unione europea
deve attrezzarsi per saper cogliere tali opportunità (Padoan).
Attraverso più vigorose politiche nazionali (come richiede tra
l’altro la nuova Strategia di Lisbona), e attraverso gli strumenti
per una politica economica europea, sia federale (ad esempio,
una diversa allocazione delle risorse per il bilancio comunitario,
coerente con gli obiettivi del sostegno alla innovazione e
alla sicurezza dei confini), sia intergovernativa (ad esempio, un
utilizzo anticiclico del Patto di Stabilità e Crescita e soprattutto
una composizione dei bilanci pubblici nazionali attenta alla qualità
delle politiche finanziate). Tutto ciò dovrà essere realizzabile
in un assetto a 27 paesi o, di fronte ad una stasi delle riforme di
governance, mediante cooperazioni rafforzate.
Per promuovere sul terreno politico tale quadro analitico
sono ovviamente decisive le culture delle principali famiglie
politiche dell’Europa: la famiglia dei partiti conservatori e la
famiglia dei partiti socialisti, laburisti e progressisti. Entrambe
in evoluzione, come tratteggiato nei contributi di Pistelli e Borioni.
Un’evoluzione segnata anche dall’ingresso nella «piccola»
Unione dei 15 dei paesi dell’Europa ex comunista, i quali sono
alle prese con una difficile fase di apprendimento della democrazia
(Biagini-Carteny descrivono il caso della Romania).
Ripartire dalle ragioni di fondo che motivano l’integrazione
politica dell’Unione europea è condizione fondamentale per
vincere la sfida delle riforme istituzionali, per superare la diffidenza
e l’ostilità di larghe fasce di cittadini europei, indipendentemente
dalle specifiche soluzioni giuridiche che verranno adottate
per aggirare le bocciature del Trattato costituzionale.
 
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