RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE EUROPEA
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Rapporto 2005 sull'integrazione europea
della Fondazione Istituto Gramsci
DALLA CONVENZIONE ALLA COSTITUZIONE
a cura di Giuseppe Vacca
Dedalo, Bari 2005

p. 328, € 15,00
ISBN 88-220-6283-3
Presentazione
di Giuseppe Vacca

Questo terzo Rapporto sull’integrazione europea venne progettato agli inizi del 2004, quando l’Europa allargata e il «Trattato per la Costituzione» non c’erano ancora. Oggi ci sono, la Costituzione europea è stata approvata tanto dai governi dell’Unione, quanto dal Parlamento europeo ed è in corso la sua ratifica da parte dei parlamenti nazionali, accompagnata in paesi importanti da referendum popolari. Scegliemmo come tema della monografia Dalla Convenzione alla Costituzione perché ritenevamo che, malgrado i contraccolpi e le lacerazioni provocati dalla guerra irachena, l’allargamento sarebbe andato in porto e la Grande Europa si sarebbe data una Costituzione; cioè, pur in presenza delle nuove sfide originate dall’unilateralismo americano e dal conseguente mutamento della scena mondiale, riponevamo fiducia nella forza e nell’autonomia del processo di integrazione europea. Quindi scegliemmo questo tema sia per mettere a fuoco il significato della Costituzione, che ritenevamo sarebbe stata «partorita», sia per approfondire le novità dello strumento prescelto per scriverla (la Convenzione). Avvertivamo l’esigenza di seguire attentamente un percorso ricco di novità, rispetto alle tappe precedenti dell’«avventura europea», e analiticamente affascinante nella sua non scontata progressione. Fra le maggiori incognite del percorso vorrei ricordare il ruolo dei paesi ex socialisti e le divisioni provocate dalla «dottrina Bush».
È relativamente agevole ricostruire quanto abbia inciso, sul compromesso costituzionale raggiunto, l’apporto dei «nuovi venuti », e nel Rapporto lo si fa ampiamente. Molto più difficile, invece, è stabilire quanto abbia pesato, durante il travaglio del parto, l’incrinatura delle relazioni euroatlantiche, la più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale. Verosimilmente le lacerazioni provocate dalla «guerra preventiva» in Iraq non hanno favorito la possibilità che l’Europa definisse unitariamente la sua posizione nel mondo prendendo in considerazione innanzitutto i costi umani inflitti alle popolazioni irachene dalla guerra e dal dopoguerra. Non hanno favorito, cioè, un percorso della Costituzione che, sostenuto da una discussione aperta sulla missione dell’Europa, ne approfondisse il ruolo di attore globale in rapporto innanzitutto ai popoli più colpiti dalle asimmetrie del mondo post-bipolare e dalla nuova «dottrina» della Presidenza americana. Ma il tema prescelto per la monografia mirava a rivolgere lo sguardo all’intero percorso dell’unificazione europea dopo il 1989-1991. Perciò essa è orientata a individuare i problemi che la scelta di unificare l’Europa a Venticinque attraverso un Trattato costituzionale presentava, piuttosto che a enfatizzare i risultati raggiunti o ad approfondire l’interpretazione del testo costituzionale. Questa scelta costituisce il tratto distintivo del Rapporto rispetto ad altre pregevoli pubblicazioni dedicate nel frattempo alla Costituzione e alle architetture istituzionali da essa disegnate.
La problematicità del percorso intrapreso e dei risultati consegnati al testo costituzionale, aperto tanto a sviluppi progressivi quanto a impasse di difficile soluzione, è il focus del saggio introduttivo di Biagio de Giovanni, un testo molto ricco, schietto e stimolante, che va al cuore del problema: egli si domanda se e in che misura la Costituzione abbia raccolto la sfida, che l’integrazione europea affronta soprattutto dall’89, di dar vita a una nuova forma di sovranità. De Giovanni richiama così l’attenzione sul problema fondamentale dell’Unione e, pur considerando aperte le sue prospettive future, dal genere Costituzione, prescelto come strumento di unificazione, e dal testo approvato sembra vedere rafforzati i suoi dubbi radicali sulla possibilità di dar vita a una nuova forma di sovranità. Le sue obiezioni si concentrano sulla possibilità di espungere dalla politica – come egli ritiene che l’Unione europea abbia fatto finora – la decisione sullo «stato d’eccezione»: in altre parole, frapponendo fra la politica e la guerra una distanza tale da far ritenere che la prima possa fare a meno quasi del tutto della seconda. Il tema è decisivo e andrebbe discusso a fondo nel suo nocciolo filosofico. Ma non è questa la sede, né è questo il taglio della monografia che de Giovanni stesso ha scelto. Sul tema da lui posto mi limito quindi a osservare che, ove mai ne faremo oggetto di indagine, ci sforzeremo di inquadrare storicamente il nesso fra politica e decisione sullo «stato d’eccezione»: cioè, cercheremo di storicizzare le nozioni della politica e della guerra, alle quali quella di sovranità è connessa. E naturalmente, nell’esaminare il nesso storico fra la politica e la guerra riconsidereremo innanzitutto il sistema delle relazioni internazionali originato dalla Seconda guerra mondiale, la nascita dell’èra atomica, sempre più incombente, il mondo post-bipolare. Sul piano etico non potremo avere altra opzione che quella della evitabilità della guerra: una opzione non solo normativa, ma storicamente fondata sul riconoscimento delle risorse politiche di un mondo sempre più uno e interdipendente. Ma, per tornare ai contributi del Rapporto, le risposte agli interrogativi posti da de Giovanni mi pare si muovano su sentieri analitici solidi e ben circoscritti, ricchi di prospezioni ricavate da una conoscenza approfondita dell’esperienza comunitaria. Esse sono sottese dalla consapevolezza del carattere processuale della costruzione della sovranità europea, storicamente inedita ma comprovata dagli sviluppi della sovranazionalità nell’èra bipolare e nella «struttura del mondo» che ad essa è seguita. Ciò significa aver chiaro che l’integrazione europea è stata condizionata dalla capacità di rispondere a sfide interne ed esterne al vecchio continente, e tale sarà anche nell’avvenire. A tal fine vorrei segnalare le indicazioni che si ricavano, ad esempio, dai contributi di Maurizio Fioravanti e Andrea Manzella: se il primo riformula le domande poste da de Giovanni analizzando il nesso fra Costituzione e unificazione politica dell’Europa, il secondo individua anche i meccanismi istituzionali e le risorse politiche contenuti nella Costituzione, grazie ai quali gli attori del processo di unificazione potranno fare passi avanti significativi e raggiungere nuovi traguardi nella costruzione della sovranità sovranazionale europea.
Il problema affrontato da Fioravanti è se il Trattato costituzionale abbia prodotto «una forma politica europea». La domanda riassume un annoso dibattito originato dalla considerazione che, partorita necessariamente da un Trattato, la Costituzione non potrebbe produrre un tale risultato poiché risulterebbe una Costituzione senza popolo e senza sovrano. Com’è noto, la Costituzione approvata stabilisce che l’Unione europea è una unione di Stati nazionali che restano distinti al suo interno; dunque, non dà vita a uno Stato federale. D’altro canto, essa è fonte primaria di un diritto comune europeo sovraordinato a quello dei singoli Stati che, sottoscrivendo il patto costituzionale, gli conferiscono obbligatorietà e lo muniscono di sanzioni. Essa dunque dà vita a una forma politica che è ben più di una Confederazione di Stati. Resta fermo che il «Trattato per la Costituzione» non genera la figura di un sovrano nel senso della tradizione costituzionalistica europea. Tuttavia, nelle sfere di regolazione convenute dagli Stati contraenti, esso dà forma a una sovranità sovraordinata. D’altro canto, nota Fioravanti, la possibilità di convocare nei singoli Stati referendum popolari per confermarla, le fornisce un fondamento che travalica la figura internazionalistica dei Trattati (i soggetti dei quali non sono i popoli, ma gli Stati) e, aggiungerei, favorisce il processo di costruzione di un «popolo europeo ». Pertanto, Fioravanti conclude la sua analisi con una proposta suggestiva: la «forma politica» disegnata dalla Costituzione, egli sostiene, è quella di «una Federazione fondata su un contratto costituzionale che lega tra loro gli Stati membri con i rispettivi popoli e le rispettive Costituzioni». Richiamo l’attenzione sulle considerazioni che seguono, le quali enfatizzano il metodo seguito da Fioravanti: analizzare il processo di unificazione europea determinandone storicamente le particolarità e sviluppando una consapevolezza sempre più avvertita della storicità delle categorie ereditate dal costituzionalismo e dalla filosofia politica moderni. Solo in questo modo si può dare forma concettuale al novum, quando esso si produce. Sicché, persuasivamente Fioravanti conclude: «Il fatto che tale Federazione non si esprima in forma statale, ovvero nella forma storicamente nota dello Stato federale, deve essere considerato prima di tutto come il segno di un tempo nuovo, che non è condannato come quello trascorso ad esprimersi necessariamente nelle forme statali e sotto il dominio del principio di sovranità». Prevedo l’obiezione che proprio questo proverebbe come non basti il processo di costituzionalizzazione a generare una unione politica compiuta. Si può rispondere che la Costituzione attuale è sia un punto di arrivo, sia il punto di partenza di un processo che continua e potrà proseguire verso forme più estese e approfondite di sovranità sovranazionale man mano che i popoli europei risponderanno alle nuove sfide interne e internazionali che l’Unione dovrà affrontare. In altri termini, l’Unione europea non potrà che continuare ad essere una costruzione «incrementale», come è stata finora. È difficile dare forma concettuale preventiva alla «forma politica» che essa assumerà in futuro, o prevedere se e quando potrà dirsi compiuta. Fra l’altro, si corre il rischio di qualificare formazioni storiche nuove con concetti ereditati da esperienze storiche passate. Proverei piuttosto a tradurre l’analisi di Fioravanti nel linguaggio politico comune. Sottolineare che il «tempo nuovo» non ha bisogno di esprimersi nelle forme statali tradizionali non significa rimuovere il problema della nuova forma di sovranità che del resto il processo di integrazione europea sta generando da tempo. Forse comprendiamo meglio la «forma politica» europea se nel processo avviato dal Trattato di Roma, piuttosto che la cessione di quote più o meno ampie di sovranità da parte degli Stati contraenti, ravvisiamo un recupero di sovranità che altrimenti, nel mondo bipolare prima, e in quello della «globalizzazione asimmetrica» poi, i paesi europei sarebbero stati condannati a perdere del tutto. Il «recupero» avviene nell’unico modo possibile, cioè attraverso l’elaborazione di una sovranità condivisa: una nuova figura della sovranità, che nel linguaggio corrente si usa definire sovranazionale. Finora il processo è giunto alla Costituzione, ma ciò non è poco: l’Unione europea comincia ad essere percepita come un attore politico globale anche da chi – come la Presidenza degli Stati Uniti – fino a pochi mesi fa si rifiutava di farlo. I modi in cui la Costituzione ne articola competenze e obiettivi sono attentamente studiati nel Rapporto ed esaminati puntualmente nei loro limiti e nelle loro potenzialità.
Ad approfondire queste ultime mi pare particolarmente utile il saggio di Andrea Manzella. Egli sottolinea molto opportunamente che il criterio stabilito dalla Costituzione per delimitare gli ambiti di iniziativa degli Stati, degli enti subnazionali e dei cittadini che fanno parte dell’Unione, è quello teleologico. Se ci fosse bisogno di una conferma del carattere processuale della «forma politica» dell’Unione, l’indicazione in Costituzione dei suoi obiettivi come criterio di legittimazione dell’iniziativa dei suoi membri è di palmare evidenza. Essa definisce il carattere dinamico e aperto al futuro dell’unificazione prodotta dalla Costituzione. La più importante prova di ciò, scrive Manzella, è il modo in cui sono regolate le «cooperazioni rafforzate» e le «cooperazioni strutturate» che, sebbene debbano essere deliberate da tutti gli Stati membri, tuttavia autorizzano raggruppamenti più circoscritti di Stati i quali, al fine di realizzare obiettivi previsti dalla Costituzione, decidano di dar vita a forme di cooperazione più approfondite fra loro. Manzella osserva che le «cooperazioni rafforzate» e quelle «strutturate permanentemente » sono quindi destinate a favorire coalizioni di avanguardia fra gruppi di Stati membri con un inevitabile trascinamento verso gli altri Stati che inizialmente non li seguano. Se si pensa che l’Unione economica e monetaria (cioè l’euro) è una «cooperazione rafforzata» e una «cooperazione strutturata permanentemente» è prevista dalla Costituzione per la politica di sicurezza e di difesa comune – in cui Francia, Germania e Gran Bretagna stanno muovendo i primi passi significativi – non si possono sottovalutare gli elementi di sovranità sovranazionale già sanciti dalla Costituzione.
Il criterio teleologico, dunque, è forse il più importante per individuare, nell’impalcatura della Costituzione, i punti nodali dell’unificazione politica da essa originata, e il saggio di Manzella è molto ricco e puntuale in tale esercizio. Ma, piuttosto che riassumerlo, seguendo il filo dell’argomentazione che sto svolgendo qui mi preme insistere sulla sua utilità per fare chiarezza sui veri attori dell’unificazione europea: non sono tanto gli Stati – sebbene siano essi a scandire le tappe del «processo costituente» – bensì i popoli. Questo risulta evidente dall’ampliamento, dalla intensificazione e dalla omogeneità della cittadinanza europea stabilita dalla Costituzione; dalle garanzie e dall’attivazione degli organi di governo dell’Unione per iniziativa dei cittadini, al fine di promuovere l’attuazione della Costituzione; dalla sintesi di democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa che essa opera. Onde il modello sociale europeo si caratterizza per un intreccio di regolazione economica e regolazione politica riassunte nella significativa innovazione del concetto di vita democratica. È difficile ignorare come tutto questo, insieme all’unificazione delle competenze, al valore generale degli obiettivi indicati dalla Costituzione e alla gerarchia delle fonti giuridiche da essa stabilita, rispecchi e metta in forma un rilevante progresso della società civile europea. In realtà, è ad essa che la figura politica dell’Unione va per gradi corrispondendo. La conclusione a cui giunge anche Manzella, quindi, è che il «Trattato per la Costituzione» dà vita a una forma originale di Federazione che «sottrae il concetto di Costituzione al vincolo della statalità e lo consegna al fenomeno moderno della sovrastatalità». Il suo approccio richiama, forse meglio di qualunque altro, la processualità della costruzione europea: pensarla, nel rispetto del suo svolgimento storico, riesce tanto meglio quanto più teniamo fermo che il suo teatro, prima ancora degli Stati e dei governi, è la società civile. L’integrazione europea è il risultato, mai del tutto compiuto, dell’iniziativa delle culture politiche e degli interessi antagonistici che la percorrono. Così si è sviluppata finora la ricerca europea di una forma politica originale che traesse fuori il vecchio continente dall’abisso in cui l’avevano precipitato le due guerre mondiali, ed è prevedibile che così continuerà a svilupparsi nell’avvenire. L’integrazione europea non avrebbe potuto originarsi se, nella «struttura del mondo» generata dalla Seconda guerra mondiale, essa non si fosse basata sulla formazione di una «società civile sovranazionale» e non avesse cercato di darle veste politica. Forse è persino ovvio che questo processo assuma le forme della sovrastatalità e si dispieghi come un’«opera aperta».
 
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