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                      Rapporto 
                        2004 sull'integrazione 
                        europea 
                        della Fondazione Istituto Gramsci  
                        IL DILEMMA EUROATLANTICO 
                        a cura di Giuseppe Vacca 
                         Dedalo, | Fondazione 
                        Istituto Gramsci, Bari | Roma, 2004 
                         
                        p. 336, € 15,00 
                        ISBN 88-220-6268-X | 
                     
                     
                        | 
                     
                     
                      Presentazione 
                        di Giuseppe Vacca   
                        Presentando il primo Rapporto annuale della Fondazione 
                        Istituto Gramsci 
                        sull’integrazione europea, un anno fa, ne indicai 
                        il principale obiettivo nell’intento 
                        di offrire uno strumento di riflessione e di studio degli 
                        avvenimenti che 
                        ne scandiscono il processo, collocandoli in prospettiva 
                        storica. Il 2003 è stato un 
                        anno denso di eventi che hanno attraversato tutte e quattro 
                        le aree di interesse del 
                        Rapporto: le istituzioni (i lavori della Convenzione e 
                        della conferenza intergovernativa); 
                        l’economia (con particolare riferimento alla realizzazione 
                        dell’allargamento); 
                        lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia; la 
                        politica estera e di difesa comune. 
                        Quanto più significativi sono stati le novità 
                        e talvolta i dilemmi incontrati nel 
                        percorso, tanto più si è rivelato utile 
                        inquadrare gli eventi nel medio periodo, collegandoli 
                        alle vicende, ai progressi e ai problemi che l’Unione 
                        europea ha vissuto 
                        a datare dal 1991 (l’anno che, con la fine dell’Urss 
                        e il Trattato di Maastricht, segnò 
                        il suo «nuovo inizio»). Tale criterio risulta 
                        ancora più efficace per il tema della 
                        monografia, dedicata quest’anno al dilemma euroatlantico. 
                        Già nell’autunno 
                        del 2002 l’enunciazione della «dottrina Bush» 
                        lasciava presagire che i principali 
                        appuntamenti del 2003 sarebbero stati condizionati dal 
                        coagularsi di una vera 
                        e propria asimmetria fra l’unilateralismo dell’amministrazione 
                        americana e il 
                        multilateralismo dell’Unione europea: due modi diversi 
                        e alternativi di intendere 
                        il ruolo di attore globale dell’una e dell’altra 
                        «potenza», le sfide della globalizzazione 
                        e soprattutto le risposte da dare alla crisi della «globalizzazione 
                        asimmetrica», cominciata nel 2000. Nel 2003 gli 
                        sviluppi della vicenda irachena 
                        hanno reso stridente quella asimmetria e provocato divisioni 
                        e contrasti fra 
                        i paesi europei che, se da un lato rendono più 
                        chiari e distinti gli interessi e le 
                        visioni che caratterizzano gli attori del processo di 
                        integrazione – Stati, governi, 
                        famiglie politiche, gruppi di interesse –, dall’altro 
                        si annodano in un groviglio 
                        che non sarà facile districare. 
                        Nel tentativo di fare il punto sulle diverse strategie 
                        che si sono confrontate sui 
                        rapporti euroatlantici abbiamo avvertito l’esigenza 
                        di ricostruire l’origine e lo sviluppo 
                        delle più innovative: quella di Blair e soprattutto 
                        quella di Bush. Se nel 
                        primo caso è sufficiente la misura temporale dell’ultimo 
                        decennio, per quanto 
                        riguarda la destra americana è stato necessario 
                        risalire agli anni Settanta del secolo passato: in particolare, 
                        gli autori della monografia contenuta nel Rapporto 
                        fanno risalire in buona misura l’origine della «dottrina 
                        Bush» alla «nuova guerra 
                        fred-da» di Reagan. A questa breve presentazione 
                        non spetta il compito di riassumere 
                        le analisi della politica internazionale degli Stati Uniti 
                        da Nixon a G.W. Bush 
                        contenute nella monografia. Giudicherà il lettore 
                        se, come a me pare, esse siano 
                        molto utili per intendere l’origine lontana e le 
                        aporie attuali dell’unilateralismo 
                        americano e il significato delle difficoltà incontrate 
                        dall’Europa nel confrontarsi 
                        con esso. Vorrei invece fermare l’attenzione su 
                        alcuni luoghi comuni che caratterizzano 
                        la percezione dell’uno e delle altre. 
                        Il primo riguarda l’11 settembre: non avendo vissuto 
                        quello shock sulla propria 
                        pelle, si dice, gli europei non si renderebbero conto 
                        delle nuove minacce rappresentate 
                        dal terrorismo internazionale e per questo sarebbero contrari 
                        alla teoria 
                        della «guerra preventiva». È opportuno 
                        ricordare che questa teoria non è nata 
                        dopo l’11 settembre del 2001, ma dieci anni prima, 
                        quando alcuni fra i più 
                        influenti think tanks della destra americana cominciarono 
                        a mettere a punto una 
                        nuova strategia globale per gli Stati Uniti nel mondo 
                        post-bipolare. In secondo 
                        luogo, è bene tenere presente che la teoria della 
                        «guerra preventiva» non è stata 
                        assunta dall’amministrazione americana subito dopo 
                        la distruzione delle due torri, 
                        ma è diventata la «dottrina Bush» un 
                        anno dopo; e fra il settembre 2001 e il settembre 
                        2002 c’è di mezzo la catena degli iperbolici 
                        scandali e crac che hanno travolto 
                        alcuni colossi della finanza e dell’industria multinazionale 
                        americana. 
                        Inoltre, c’è stato un mutamento significativo 
                        della politica economica dell’amministrazione 
                        Bush. Infine, è utile ricordare che la risposta 
                        iniziale americana all’11 
                        settembre fu la costruzione della più ampia coalizione 
                        internazionale che mai si 
                        fosse vista prima, per muovere guerra all’Afghanistan 
                        dei talebani; la guerra 
                        all’Iraq, invece, è stata concepita, giustificata 
                        e condotta fin dall’inizio in modo 
                        unilaterale. 
                        Sorge dunque il problema di ricostruire l’origine 
                        della teoria della «guerra preventiva  » 
                        e di inquadrarla negli svolgimenti della politica estera 
                        americana dell’ultimo 
                        trentennio: dalla crisi del blocco newdealista che portò 
                        alla vittoria di 
                        Reagan, fino all’elezione di G.W. Bush. Al notevole 
                        scavo compiuto in questo 
                        volume vorrei aggiungere qualche ulteriore tema di riflessione. 
                        Ciò che colpisce 
                        in questa strategia non è la definizione sempre 
                        più unilaterale dell’interesse nazionale 
                        americano. Certo, per la maggiore potenza mondiale questo 
                        approccio segnala 
                        una progressiva perdita di fiducia nelle proprie capacità 
                        egemoniche; tuttavia, 
                        potrebbe essere legittimo. Colpisce, invece, la definizione 
                        dell’interesse nazionale 
                        in termini di «sicurezza totale» che radicalizza 
                        una visione posta già da Reagan a base del programma 
                        di «guerre stellari», più volte fallito, 
                        e ricorda le concezioni 
                        della politica estera dei regimi totalitari europei degli 
                        anni Trenta. Essa manifesta 
                        un senso di ansia e di crescente insicurezza piuttosto 
                        che, come si vorrebbe far 
                        credere, di potenza. È sorprendente osservare come 
                        gli Stati Uniti, protagonisti 
                        dopo la Seconda guerra mondiale delle strategie politiche 
                        e della costruzione 
                        delle istituzioni sovranazionali che hanno favorito la 
                        crescita dell’interdipendenza, 
                        gli sviluppi della legalità internazionale e la 
                        nascita di una sia pure inadeguata 
                        governance mondiale, appaiano oggi così ostili 
                        ad esse e ne provochino inopinate 
                        lacerazioni. Inoltre, non vi è chi non veda come 
                        questo modo di definire 
                        l’interesse nazionale sia incompatibile con qualunque 
                        idea di ordine mondiale 
                        basato sulla legalità e capace di promuovere la 
                        democrazia internazionale. Infine, 
                        essa segna un ritorno alla concezione dell’inevitabilità 
                        della guerra, e ciò evoca la 
                        struttura del mondo dei primi quattro decenni del Novecento, 
                        piuttosto che 
                        quella dell’ultimo sessantennio. 
                        Altrettanto aporetica è la percezione della minaccia 
                        con cui la teoria della  «guerra preventiva» 
                        si giustifica. Il terrorismo internazionale è certamente 
                        una 
                        minaccia inedita e globale (contro il genere umano, si 
                        è detto dopo l’11 settembre, 
                        replicando ai teorici del conflitto di civiltà). 
                        Ma la percezione della minaccia 
                        non coincide con l’identificazione del nemico. Innanzi 
                        tutto, non si è riusciti 
                        ancora a dare una definizione convincente e condivisa 
                        del terrorismo internazionale, 
                        e questo non dipende solo da difficoltà concettuali, 
                        ma anche dalle divisioni 
                        sedimentate nel pensiero strategico internazionale. Ma 
                        soprattutto è bene avere 
                        chiaro, come di recente ha ricordato Brezinzski, che il 
                        terrorismo è un metodo di 
                        guerra, non la figura di un nemico: è come se durante 
                        la Seconda guerra mondiale, 
                        egli ha aggiunto, avessimo considerato il nemico la Blitzkrieg 
                        invece di 
                        Hitler. La soluzione adottata dall’amministrazione 
                        Bush appare dunque quanto 
                        mai insoddisfacente: il nemico è individuato negli 
                        «Stati canaglia», così definiti e 
                        identificati, di volta in volta, in modo del tutto unilaterale. 
                        A parte ogni altra considerazione, 
                        può essere giusta una definizione del nemico non 
                        vincolata al principio 
                        di reciprocità? Per essere credibile una definizione 
                        del nemico dovrebbe essere 
                        sottoposta a quel principio (non posso definirti il mio 
                        nemico se non è dimostrabile 
                        che così tu definisci me); altrimenti appare fallace 
                        e ingannevole, volta a 
                        giustificare guerre di cui le ragioni vere non sono quelle 
                        dichiarate. Altra cosa è la 
                        giustificazione della guerra per «ingerenza umanitaria», 
                        che non sottostà al criterio 
                        della reciprocità. Ma, non a caso, essa non è 
                        classificabile come «guerra preventiva  », 
                        ed è giustificata dalla necessità, avvertita 
                        dalle istituzioni sovranazionali, di ripristinare la legalità 
                        internazionale violata: una realtà e un principio 
                        che la 
                        destra nazionalista americana sembra oggi disconoscere, 
                        e che comunque ha apertamente 
                        violato nella vicenda irachena e non solo. 
                        Infine, ma non meno importante, nell’era atomica 
                        una nozione della politica 
                        basata sull’immagine del nemico è palesemente 
                        anacronistica. Si potrebbe 
                        obiettare che proprio l’era atomica è stata 
                        caratterizzata dall’elevazione della coppia 
                        amico-nemico a principio della politica mondiale: cos’altro 
                        era il sistema della 
                        guerra fredda se non un’organizzazione dicotomica 
                        della politica mondiale basata 
                        sull’immagine del nemico (comunismo contro capitalismo, 
                        democrazia contro 
                        totalitarismo, ecc.)? Ma, com’è noto, quella 
                        era solo la rappresentazione condivisa 
                        di una struttura del mondo consensualmente disciplinata 
                        dalle due maggiori 
                        potenze nella consapevolezza che il potere di distruzione 
                        reciproca, di cui erano 
                        entrambe dotate, ne condizionava la possibilità 
                        di ricorrere alla guerra come prosecuzione 
                        della politica con altri mezzi. I due nemici erano, in 
                        realtà, i condomini 
                        di un ordine mondiale sempre più interdipendente 
                        e refrattario all’unilateralismo. 
                        Detto in altri termini, entrambi i contendenti sapevano 
                        che la guerra fredda 
                        non era propriamente una guerra, poiché non poteva 
                        essere vinta né dall’uno, 
                        né dall’altro; e soprattutto, l’eventuale 
                        «vincitore» non avrebbe potuto dettare le 
                        sue condizioni al vinto perché si sarebbe trovato 
                        a dover affrontare da solo i problemi 
                        del mondo intero. Certo, anche la monografia che qui si 
                        pubblica documenta 
                        come fra la metà degli anni Settanta e i primi 
                        anni Ottanta il sistema della 
                        guerra fredda non fu più concepito in termini di 
                        equilibrio: l’espansionismo sovietico 
                        e la «nuova guerra fredda» di Reagan crearono 
                        le premesse della sua fine, e la 
                        definizione dell’Urss come «impero del male» 
                        appare il vero antecedente della teoria 
                        degli «Stati canaglia». Ma se, nella lunga 
                        transizione post-bipolare, non si è 
                        riusciti ancora a disegnare un nuovo ordine mondiale, 
                        è realistico pensare di poterci 
                        riuscire ricorrendo nuovamente al teorema di Von Clausewitz? 
                        I temi a cui ho accennato non sono affrontati tutti nella 
                        monografia. Ho voluto 
                        farlo perché essi segnalano una novità impressionante: 
                        con la «dottrina Bush» 
                        la più grande democrazia del mondo propugna una 
                        concezione delle relazioni 
                        internazionali che contraddice i principi basilari della 
                        democrazia. È una posizione 
                        incommensurabile che tende a ridisegnare la figura della 
                        destra internazionale 
                        in modo inedito, regressivo e minaccioso. Per capire da 
                        dove nasce e dove può 
                        portare bisognerà «cercare ancora». | 
                     
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