Prefazione 
                           
                          di Luisa Mangoni 
                           
                          Militante e dirigente del Pci; membro del Comitato 
                          Centrale e della Direzione 
                          dal gennaio 1946 e, dal febbraio dello stesso anno, 
                          responsabile per il 
                          Mezzogiorno; eletto alla Costituente e da allora costantemente 
                          presente nel 
                          Parlamento italiano; ministro dell’Assistenza 
                          postbellica e poi dei Lavori Pubblici 
                          nel secondo e terzo governo De Gasperi; studioso e interprete 
                          della storia 
                          dell’agricoltura italiana, pensata come una delle 
                          possibili strade per intendere 
                          lo svolgersi della storia dell’Italia unita; convinto 
                          assertore del ruolo dell’Urss 
                          come guida del movimento comunista internazionale e 
                          conseguentemente 
                          strenuo difensore del suo primato culturale; occhiuto 
                          e aggressivo responsabile, 
                          dal gennaio 1948 all’aprile 1951, della Commissione 
                          culturale del Pci e intensamente impegnato negli stessi 
                          anni a promuovere in Italia il movimento dei 
                          Partigiani della pace, Emilio Sereni sembra impersonare 
                          una condizione politica 
                          e culturale che non lo differenzia da gran parte della 
                          classe dirigente comunista 
                          italiana di quegli anni, se non forse nei termini estremi 
                          in cui in lui si manifestava. 
                          Ma un altro elemento potrebbe contraddistinguerlo: la 
                          lucida consapevolezza 
                          di cosa l’intreccio di tutti questi elementi significasse. 
                          Il 2 marzo 
                          1949, nel replicare ai dubbi della casa editrice Einaudi 
                          circa la pubblicazione di 
                          una sua raccolta di saggi, Scienza marxismo cultura, 
                          testi in cui si rifletteva proprio 
                          la sua attività di responsabile della Commissione 
                          culturale e che toccavano 
                          i più vari argomenti, Sereni sottolineava la 
                          esplicita «intenzione» e l’implicito 
                          «giudizio sulla cultura» che la raccolta 
                          da lui proposta implicava. Una intenzione e un giudizio 
                          che intendevano avere l’effetto di un «pugno 
                          nello stomaco». 
                          Era peraltro lo stesso Sereni che pochi mesi dopo, il 
                          19 gennaio 1950, nell’accettare la proposta di 
                          scrivere, per la Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria, 
                          sempre di Einaudi, una storia dell’agricoltura, 
                          ricordava il suo impegno da anni 
                          per un volume, Città e campagna nell’Italia 
                          antica, incentrato soprattutto sulla Liguria preromana, 
                          costruito su materiali «storici, linguistici, 
                          archeologici, epigrafici 
                          », e quanto questo lavoro di ricerca avesse implicato 
                          per lui ripensamenti di 
                          quella storia dell’agricoltura italiana, in epoche 
                          più recenti, che negli ultimi 15- 
                          20 anni aveva accompagnato ed era stata parte integrante 
                          del suo lavoro politico. 
                          Nel titolo che Sereni proponeva per il libro richiestogli, 
                          Breve storia dell’agricoltura 
                          e dei contadini d’Italia, si innestavano inoltre 
                          anche le ricerche di «materiale 
                          filologico o folcloristico» che era andato svolgendo 
                          sui canti popolari, riletti 
                          pionieristicamente come «fonte di storia»: 
                          «si tratta di una storia del popolo italiano (dell’Italiano 
                          Qualunque) nei suoi canti. Si tratta di mostrare in 
                          maniera viva che l’Italiano Qualunque non è 
                          un Uomo Qualunque, che è un uomo che non 
                          è stato solo oppresso e sfruttato, che non ha 
                          detto soltanto “Franza o Spagna purché 
                          se magna”, ma ha lottato e combattuto». 
                          Era, ancora, il Sereni che nell’ottobre 1951 offriva 
                          infine il suo Comunità rurali dell’Italia 
                          antica, opera di «ricerca erudita» che gli 
                          stava particolarmente a cuore, sottolineandone ancora 
                          una volta il legame, non solo «soggettivo e personale», 
                          con la Breve storia dell’agricoltura. 
                          Filoni che venivano quasi naturalmente a congiungersi 
                          nel famoso volume 
                          sul paesaggio agrario, che Einaudi avrebbe dovuto pubblicare 
                          nel 1955 e che sarebbe apparso solo nel 1961 per i tipi 
                          di Laterza. In esso si presupponeva il riferimento a 
                          Les caractères originaux de l’histoire 
                          rurale française di Marc Bloch 
                          e si rileggeva il paesaggio agrario come prodotto dell’uomo, 
                          svolgimento delle 
                          forme antiche dovuto all’azione operosa di quei 
                          contadini italiani di cui Sereni 
                          avrebbe voluto comporre le molteplici storie: ancora 
                          il filo unitario che connetteva 
                          la sua riflessione di storico e, insieme, una delle 
                          intime matrici di una ormai 
                          trentennale scelta politica. 
                          Sono questi i lineamenti compositi che questa scelta 
                          di lettere intende mettere 
                          in evidenza, sia pure necessariamente per rapidi scorci. 
                          Quello che si propone al lettore non è solo un 
                          significativo contributo alla 
                          valorizzazione dell’imponente patrimonio documentario 
                          custodito dalla Fondazione 
                          Gramsci. È anche il presentare, senza reticenze, 
                          una figura che, nella già complessa genealogia 
                          del Partito comunista, per le sue peculiari contraddizioni 
                          ha spesso destato un senso di disagio. Un invito alla 
                          riflessione sul passato, 
                          accompagnato dalla implicita considerazione che non 
                          si possono selezionare 
                          a ritroso i propri ascendenti né occultare parti 
                          della propria storia: ancor più 
                          che opportuno, è doveroso comprenderne le vicende 
                          in quello che ebbero di 
                          comune e in ciò che fu proprio ad ognuno di essi. 
                          La selezione delle lettere, su un arco cronologico che 
                          va dal 1945 al 1956, 
                          almeno nel termine a quo rispecchia comunque i limiti 
                          del materiale documentario 
                          conservato al Gramsci. Sono state però inserite 
                          alla fine alcune lettere personali 
                          che, pur risalenti a quegli stessi anni, impongono di 
                          spingere lo sguardo 
                          più indietro nel tempo. 
                          Il 1° novembre 1945, alla madre e alla sorella in 
                          Palestina, Sereni scriveva a 
                          proposito della morte del fratello Enzo: «qualcosa, 
                          davvero, si è rotto dentro, 
                          non un’altra cosa, ma tutta una parte di me stesso 
                          […]. Si è rotta tutta la mia 
                          vita, si è rotta come la mia gioventù». 
                          Tuttavia c’era stata un’altra rottura che 
                          nel settembre 1928 aveva diviso irreparabilmente la 
                          storia dei due fratelli, quando 
                          Emilio Sereni, nel comunicare a Enzo la sua decisione 
                          definitiva di non raggiungerlo più in Palestina, 
                          aveva usato, sia pure tra virgolette, un vocabolo rivelatore: 
                          «Naturalmente, anche a me dispiace molto il non 
                          poter più collaborare 
                          con te, e l’averti dovuto “tradire” 
                          in quelli che erano i nostri comuni piani». 
                          La scelta per il comunismo, il distacco dal sionismo 
                          facevano venir meno già 
                          allora quell’unità di intenti cementata 
                          da una sorta di simbiosi che andava oltre 
                          l’essere fratelli. 
                          Le due precedenti lettere di Enzo Sereni, dell’8 
                          dicembre 1927 e del 4 febbraio 
                          1928, le ultime di questo scambio, erano firmate non 
                          con il familiare Enzo 
                          o Chaim, ma per intero «Enzo Sereni». La 
                          lettera di Emilio del 4 settembre 
                          1928, quella in cui comunicava la sua scelta definitiva, 
                          era firmata invece 
                          Uriel Sereni, e il nome, prescelto al tempo dell’opzione 
                          comune con il fratello 
                          per il sionismo attivo, e il cognome sembravano elidersi 
                          a vicenda, a confermare 
                          un’immagine ormai dimidiata che lo stesso Emilio 
                          Sereni doveva avere 
                          di sé. 
                          A questa lettera Enzo Sereni non rispose, ma se si vuole, 
                          una risposta si trova 
                          altrove. Nel 1931 in una delle sue corrispondenze dalla 
                          Germania, Enzo Sereni 
                          descriveva il quadro per lui desolante di una presenza 
                          ebraica, diffusa ormai 
                          in ogni strato della società, la cui assimilazione 
                          era avvenuta al prezzo «dell’annullamento 
                          delle qualità interiori»: «ebrei 
                          in dissolvimento» nella cui vita 
                          gli sembrava di cogliere tutto «il sapore amaro 
                          della diaspora». E ripensando 
                          agli anni dell’immediato dopoguerra, alla stagione 
                          «eroica» del sionismo in 
                          Germania, si soffermava su quei «perpetui cercatori» 
                          che dal sionismo erano 
                          passati al comunismo, sostituendo «- ad usum temporis 
                          – il pathos rivoluzionario 
                          vero del sionismo, che consiste nella formazione di 
                          un nuovo ebreo, con 
                          le scorie postbelliche, pseudomessianiche»: una 
                          «assimilazione rossa», dunque, 
                          che si era rivelata uno degli ostacoli più insidiosi 
                          per il sionismo stesso, col creare 
                          in molti «l’impressione che il sionismo 
                          non possegga pathos rivoluzionario 
                          e creatore in genere». 
                          Difficile pensare che dietro queste parole non si proiettasse 
                          l’ombra di 
                          un’altra stagione, quella del sionismo italiano 
                          tra il 1924 e il 1928, e della appassionata discussione 
                          epistolare che lo aveva visto confrontarsi con il fratello 
                          Emilio. La scelta per il sionismo militante era stata 
                          allora una scelta «per non 
                          morire», fondata sulla radicale convinzione che 
                          fuori dalla Palestina non ci fosse 
                          «salvezza per la vita ebraica». L’abbandono 
                          di quella opzione che per sette 
                          anni aveva segnato la vita e le scelte dei fratelli 
                          Sereni, non poteva che avvenire, 
                          come sembra aver colto Enzo Sereni nel 1931, in nome 
                          di un analogo «pathos 
                          rivoluzionario» e messianico: quello che Emilio 
                          Sereni rivolse al comunismo 
                          con uno spirito di totale sacrificio, la cui portata 
                          può essere colta solo dalla 
                          tragica testimonianza rappresentata dalle memorie postume 
                          della moglie. 
                          Verrebbe da aggiungere che l’identificazione con 
                          la nuova causa doveva essere 
                          tanto più totale quanto più il sottinteso 
                          del «tradimento» del progetto in comune 
                          col fratello lo imponeva; e imponeva, si vorrebbe dire, 
                          la quasi impossibilità 
                          di mettere in discussione ciò che, se si fosse 
                          rivelato errato, avrebbe reso quel 
                          tradimento insopportabile per chi lo aveva consapevolmente 
                          compiuto. E del resto, 
                          quando ancora era l’altra metà di Emilio, 
                          Enzo aveva osservato che il suo 
                          «ortodossismo» gli sembrava «una “precauzione 
                          contro se stesso” che è ottima 
                          cosa per il peccatore convertito che, raggiunta una 
                          volta la verità pone “siepi intorno alla 
                          legge” per non correre il pericolo di ricadere 
                          in tentazione». E vale 
                          la pena ricordare la lettera, immediatamente successiva 
                          alla liberazione dal carcere, indirizzata da Emilio 
                          Sereni alla cognata Ada. Vi si può cogliere, 
                          anche se 
                          sembra strano a dirsi, quasi un senso di leggerezza, 
                          come se il prezzo che egli 
                          stava pagando per la sua scelta comunista la autenticasse: 
                          non una diserzione la 
                          sua, ma una lotta diversa in nome di una scelta che 
                          comportava costi altrettanto 
                          alti, addirittura più alti e imprevisti. 
                          La diffidenza e la delazione di compagni di partito 
                          dovuta anche a rapporti 
                          familiari di Sereni, come quello con Eugenio Colorni 
                          e soprattutto con la suocera 
                          Xenia Silberberg, con le conseguenze di rischio personale 
                          e di isolamento 
                          e condanna fu certo una esperienza sconvolgente: investiva 
                          fra l’altro proprio 
                          la persona che lo aveva particolarmente attratto e suggestionato, 
                          come egli stesso 
                          avrebbe riconosciuto nel 1957 alla morte di Xenia Silberberg. 
                          Pur con qualche 
                          residua riserva, Emilio Sereni ammetteva di doverle 
                          «una influenza decisiva 
                          e risolutiva a tutto l’orientamento della mia 
                          vita», avendolo avvicinato 
                           
                          a quello che Lenin chiamava «lo slancio romantico 
                          del rivoluzionario russo», e al 
                          quale egli giustamente attribuiva un’importanza 
                          così decisiva nella funzione d’avanguardia 
                          del Partito bolscevico. Per me, allora, ed a tutt’oggi, 
                          la mamma di Xenia fu come 
                          l’incarnazione vivente di questo «slancio 
                          romantico del rivoluzionario russo»: 
                           
                          Accettare e superare queste vicende, ancora in parte 
                          da indagare16, che tanto 
                          improntarono le ragioni stesse della sua militanza, 
                          fu per Sereni un’esperienza 
                          forse ancor più drammatica e dolorosa dell’arresto 
                          da parte dei fascisti nel 
                          giugno del 1943, della tortura, della condanna a morte. 
                          Vanno rilette con attenzione, a questo proposito, le 
                          pagine della introduzione di David Bidussa alle lettere 
                          fra Enzo ed Emilio Sereni, in particolare l’analisi 
                          colma di implicazioni che 
                          egli propone dell’intervento di Sereni su «Paese 
                          Sera» a proposito del film di 
                          Citto Maselli, Il sospetto. Sereni aveva scritto il 
                          15 marzo 1975: 
                           
                          Chi ha vissuto in quella illegalità non esiterà, 
                          d’altronde, a riconoscere, nel film di 
                          Maselli, l’assenza di ogni esagerazione o deformazione 
                          in proposito. Ed i criteri di stretta funzionalità 
                          ed essenzialità espressiva che caratterizzano 
                          quest’opera valgono a sottolinearne – insieme 
                          con la validità artistica – il notevole 
                          valore documentario. 
                           
                          Bidussa commenta: 
                           
                          L’eroismo è scomparso e rimane solo la 
                          dimensione del sospetto […]. Se il film è 
                          ambientato nel 1934 è probabile invece che Sereni 
                          lo abbia mentalmente collocato nel 1938, quando anch’egli 
                          si è trovato sospettato in una rete che allora 
                          gli sembrava plausibile e che ora si domanda se ne valeva 
                          o meno la pena. 
                           
                          Nello stesso anno, il 13 maggio 1975, Einaudi scrisse 
                          a Sereni: 
                           
                          La memorialistica comunista sta mostrando la ricchezza 
                          e il valore di molte testimonianze personali su fatti 
                          e avvenimenti ormai «storici» e tuttavia 
                          ancora operanti attraverso conseguenze e sviluppi successivi. 
                          Sono certo che tu pure avresti molto da dire, non tanto 
                          per arricchire un’aneddotica interessante, ma 
                          di scarso significato, quanto per dare un contributo 
                          alla conoscenza del passato, che non può essere 
                          consegnato, per troppe ragioni agli archivi. Vuoi riflettere 
                          su questa tua possibilità di «memorialista 
                          » e dirmi che cosa ne pensi?. 
                           
                          Non mi risulta una risposta. Forse Sereni stesso avrebbe 
                          avuto qualche difficoltà, 
                          negli ultimi anni di solitudine e amarezza, a ricomporre 
                          una memoria 
                          unitaria del suo frastagliato passato. 
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