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ANNALE
XIV Aurelio
Macchioro. Keynes, Marx, l'Italia
a cura di Luca Michelini
Prefazione di Giuseppe Vacca Roma,
Carocci, 2007
p. 316, € 24,50
ISBN 978-88-430-4209-8 |
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Prefazione
di Giuseppe Vacca
La pubblicazione di questa scelta di scritti di Aurelio
Macchioro negli “Annali”
della Fondazione Istituto Gramsci inaugura una nuova “linea
di produzione”.
Finora gli “Annali” erano stati dedicati soltanto
alla pubblicazione critica di fonti
documentarie riguardanti la storia del comunismo e degli
atti dei convegni di
maggiore impegno nella programmazione scientifica e culturale
della Fondazione.
Con questo “Annale” diamo inizio alla pubblicazione
anche di raccolte di
scritti di “maestri e compagni” che in vario
modo hanno ispirato o contribuito
a ispirare gli indirizzi culturali della Fondazione nel
corso della sua ormai non
breve esistenza. Scritti distribuiti lungo l’intero
arco temporale dell’attività degli
autori, che nel loro insieme e con saggi introduttivi
adeguati ne ricostruiscano
la biografia intellettuale. Scritti che ci sembra giusto
raccogliere per il loro valore
metodologico e per i risultati da essi raggiunti; e che
ci pare opportuno sottrarre
alla disattenzione originata dal loro essere sparsi in
pubblicazioni disparate
o cessate, di non facile frequentazione. Non pensiamo
di dar vita a una vera
e propria serie, ma di riproporre di tanto in tanto la
lezione di studiosi verso
i quali ci pare evidente il debito della Fondazione secondo
la sensibilità e l’ispirazione di quanti
attendono oggi alla elaborazione dei suoi programmi e
allo sviluppo delle sue attività. Come nel caso
di Macchioro, anche in quelli che seguiranno pensiamo
a figure di intellettuali che, nel campo della ricerca
storica, hanno contribuito in misura significativa al
rinnovamento degli studi e alla formazione dell’etica
civile dell’Italia repubblicana.
In verità la ragione per cui cominciamo da Macchioro
è occasionale e attiene
alla biografia del sottoscritto. Macchioro insegnò
storia e filosofia nel Liceo
classico Quinto Orazio Flacco di Bari dal ???? al ????
e fui suo alunno dal ???? al
????. Come ricorda Luca Michelini nella sua ampia e accurata
introduzione, erano
gli anni in cui stava approfondendo Marx e prendeva forma
quell’indirizzo
metodologico che lo stesso Michelini definisce felicemente
«la storia del pensiero
economico come critica dell’economia politica».
Ho un ricordo vivissimo del
modo in cui Macchioro riusciva a farci collegare, maieuticamente,
le esperienze
e i dilemmi della nostra giovinezza alle “questioni
fondamentali” della Logica e
dell’Etica. L’impegno era arduo, e si esercitava
su testi basilari della filosofia moderna: in seconda
liceo, il Discorso sul metodo di Cartesio e in terza la
Fondazione della metafisica dei costumi di Kant. Ma il
risultato era notevole. Macchioro ci addestrava all’autonomia
intellettuale di fronte a ogni aspetto della vita –
i di sgregati dell’empiria o le fascinazioni del
trascendente – e ci faceva scoprire nella disciplina
degli studi e nella coltivazione dell’intelligenza
il suo segreto: la possibilità di rinnovare le
energie della giovinezza nelle stagioni della maturità
e della vecchiaia, a cui ci preparava.
Personalmente ero smarrito e impaurito dalla prospettiva
di divenire adulto
perché percepivo gli adulti come un mondo di ombre
grigie, di uomini vecchi a
cinquant’anni condannati alla routine, dominati
dagli stereotipi e sostanzialmente
depressi. La guerra era finita da dieci anni e non avevo
gli strumenti intellettuali
per storicizzare le generazioni segnate dalle due guerre
mondiali. La
realtà in cui vivevo era angusta e stagnante, autoritaria
e tradizionalistica. Il professor Macchioro era invece
una figura paterna singolare: intransigente e severo,
ma appassionato e “giovane”. E il segreto
stava nell’attività intellettuale energica
e ininterrotta che si intravvedeva dietro l’impegno
che metteva nell’insegnamento. Il messaggio era
chiaro e ci offriva uno straordinario reagente: voleva
fare di noi dei cittadini liberi e responsabili, dotati
mentalmente degli strumenti necessari per capire il mondo
e collocarci autonomamente in esso. Ai più capaci
chiedeva di prepararsi ad assolvere una moderna “missione
del dotto”. Il tempo non gli bastava mai e in terza
liceo prendeva a prestito le ore del professore
di ginnastica o di qualche altro collega che non aveva
da svolgere programmi gravosi come quelli di storia e
filosofia, per prepararci agli esami. Al tempo stesso
ci impartiva un insegnamento esemplare di etica civile.
Sapevamo che era iscritto
al PCI, era stato partigiano ed era un militante. Ma l’unico
segno della sua appartenenza politica era “l’Unità”
ripiegata e ben in vista nella tasca sinistra della
giacca quando arrivava a scuola sempre a passo svelto.
In classe, però, il giornale
spariva e lui non ci proponeva mai temi o discorsi che
esorbitassero la funzione
didattica e l’ambito disciplinare. Rarissimo qualche
scambio di idee su un libro
o su un film, fuori dell’ora di lezione e dell’aula,
se qualcuno dei pochi studenti
che più erano incuriositi dalla sua figura di docente-intellettuale
molto riservato
e diverso dai suoi colleghi prendeva l’iniziativa
di interpellarlo. In classe
si discuteva, ma mai di politica in senso immediato. E
la sua lezione era rivolta
esclusivamente a farci ragionare e apprendere l’arte
dell’argomentazione. La sua
ironia si esercitava soprattutto sui luoghi comuni di
cui eravamo imbevuti per via
dell’ambiente familiare e sociale, primo fra tutti
l’anticlericalismo.
Il manuale di storia della filosofia era quello di Paolo
Emilio Lamanna; quello
di storia, Il cammino umano di Armando Saitta. Solo dal
primo liceo la scuola
aveva cominciato a piacermi. Quell’anno iniziai
ad amare la letteratura greca e latina.
La storia e la filosofia divennero una passione in terza.
Per ragioni che forse
risalivano alla koiné culturale antifascista dei
docenti dell’Orazio Flacco, trovai
una notevole sintonia fra il Critone e il Cato Maior,
sui quali ci impegnava con
finezza il professore di latino e greco, e il modo in
cui Macchioro ci educava alla
filosofia. Sebbene il primo accompagnasse le sue dotte
lezioni di lingue e letterature classiche ad amari pensieri
sulla natura degli uomini e la realtà delle cose
presenti (era stato azionista, credo per breve tempo,
e ruminava acidi commenti sull’Italia democristiana
e centrista di quegli anni), la sua passione per la cultura
classica era autentica e la sua conoscenza profonda. Quindi
ce ne trasmetteva il fascino e l’etica severa, gettando
un ponte ideale con l’insegnamento di Macchioro,
pur così diverso. Esso era favorito dall’adozione
della storia della letteratura greca di Gennaro Perrotta
e della letteratura latina di Concetto Marchesi. Tuttavia
mi immaginavo che nelle ore pomeridiane e in serata quel
professore trascorresse il suo tempo dando lezioni private,
per arrotondare lo stipendio, o chiacchierando al caffè
e magari giocando a carte con gli amici. Era impossibile
immaginare situazioni analoghe per Macchioro. Si percepiva
che il suo impegno didattico era nutrito di studi freschi
e di ricerche continue che per noi era difficile decifrare.
Pareva che il tempo non gli bastasse mai e persino durante
le gite scolastiche si portava dietro ponderosi volumi
inglesi, onde mi domandavo cosa mai studiasse con tanta
assiduità e con tanto impegno. Forse l’unico
ad avere con lui una dimestichezza fuori dell’ambito
scolastico era Franco De Felice, che già improntava
la sua vita al “lavoro intellettuale come professione”.
Mantennero rapporti anche nei due anni in cui, dopo il
nostro liceo, Macchioro insegnò ancora a
Bari e fu lui a “svelarmi” che il nostro professore
lavorava da anni ad una storia
del pensiero economico di cui non riusciva a vedere la
fine. Con la consueta, caustica ironia la chiamava “l’elefante
bianco”. Fu De Felice a comunicarmi, nel ’??,
che Macchioro aveva lasciato il PCI e si trasferiva a
Milano per poter disporre delle
biblioteche necessarie a portare a termine la sua opera.
Lo rividi subito dopo la laurea. Fui io a cercarlo, a
Milano, perché volevo
fargli sapere che ero diventato comunista e mi ero laureato
in Giurisprudenza
con una tesi sulla filosofia giuridica e politica di Benedetto
Croce. Ero a Milano
in “viaggio premio” e sorvegliavo lo stand
della casa editrice Leonardo Da Vinci
(pochi anni dopo si sarebbe trasformata nella De Donato
e l’editore sarebbe
divenuto mio cognato) alla Fiera del Libro nel Palazzo
Reale. Avevo preso contatto
con i comunisti baresi immigrati a Milano – i pochi
che conoscevo – e tranne
uno di loro (vendeva vino al dettaglio importato dalla
Puglia e con l’esplosione
del movimento studentesco sarebbe diventato il più
importante ristoratore
pugliese di Milano e del suo hinterland) che aveva mantenuto
i rapporti con
Macchioro, gli altri non l’avevano più cercato
perché era un “fuoriuscito”. Con
il sostegno del compagno “intermediario” li
convinsi a organizzare una cena con
il mio “vecchio” professore e ricordo che
trascorremmo una serata bellissima.
Qualcuno si spinse a dire che sperava che un giorno potessimo
considerare “compagno” anche chi aveva
lasciato il partito se in fondo non aveva cambiato
le sue idee. Mi sorprese il fatto che Macchioro non era
per nulla stupito della
mia evoluzione intellettuale e politica. Il ricordo che
aveva di me era quello di
un adolescente intelligente e inquieto, ancora immaturo
e stupidamente anticlericale, del quale, tuttavia, aveva
stima. Senza che allora ne fossi consapevole, era stato
il suo insegnamento a determinare il corso successivo
della mia evoluzione intellettuale. Finito Kant, non impiegò
molte lezioni per Hegel e credo di capire il perché.
Arrivati a Marx mise da parte il manuale e ci dettò
le sue lezioni sulla concezione materialistica della storia:
settimane e settimane di tirocinio appassionante che rivoluzionava
la nostra percezione sia della realtà, sia della
filosofia. L’Hegel che ci sarebbe servito era dunque
quello filtrato dal “rovesciamento” di Marx?
Lo stesso fece con Bergson. E di Croce ci spiegò
a lungo la teoria della storiografia, reinnestando la
sua concezione della “contemporaneità della
ricerca storica” nella “filosofia della praxis”
e nel materialismo storico: l’unica filosofia che
potesse soddisfare la nostra aurorale esigenza di comprendere
la realtà e costruirci una disciplina mentale appropriata.
Non avevo neppure un vago sospetto di quanto quelle lezioni
avrebbero segnato i miei successivi percorsi intellettuali
e le mie scelte di vita. Lo scoprii parecchi anni dopo
quando, affrontando i suoi Studi di storia del pensiero
economico, mi resi conto che il Marx che avevo cominciato
ad assorbire con metodo da circa un triennio era il “suo”
Marx, quello che illuminava gli Studi, tutte le sue ricerche
e i suoi interventi militanti. Era il Marx che ci aveva
trasmesso in nuce nelle lezioni del liceo e lo ritrovavo,
dispiegato e possente, perché nel tragitto intellettuale
che avevo compiuto avevo ripercorso le mediazioni storico-culturali
che avevano segnato l’interpretazione di Macchioro:
Croce e, a ritroso, Labriola e Spaventa; a seguire Gramsci,
e finalmente Marx. Da allora – era l’inizio
degli anni Settanta – credo di non aver più
perso di vista scritti e interventi del mio “vecchio”
professore e sebbene – come ho ritenuto giusto testimoniare
– sia in qualche modo biografica e occasionale la
ragione per cui questa prima raccolta di scritti di “maestri
e compagni” è dedicata a lui, penso che i
lettori vi ritroveranno alcune linee fondamentali dell’attività
di ricerca e dei progetti culturali remoti e recenti della
Fondazione Istituto Gramsci. |
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