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ANNALE XV
Togliatti nel suo tempo
a cura di Roberto Gualtieri, Carlo Spagnolo, Ermanno Taviani
Roma, Carocci, 2007

p. 454, € 31,00
ISBN 978-88-430-4184-8

Prefazione
di Giuseppe Vacca

Guerra antifascista e nazionalizzazione dei partiti comunisti
«Bisognerebbe far diventare i partiti comunisti assolutamente autonomi, e non sezioni dell’IC. Essi devono trasformarsi in partiti comunisti nazionali con diverse
denominazioni [...]. L’importante è che [...] si radichino nel proprio popolo e si
concentrino sui propri specifici compiti [...] ma non con lo sguardo rivolto a Mosca;
che risolvano autonomamente i compiti concreti che stanno dinnanzi a loro,
[che] nei differenti paesi sono del tutto diversi». Stalin pronunciò queste parole
nella notte del ?? aprile ????. Percepiva l’imminenza dell’aggressione hitleriana e
si preparava alla “guerra patriottica”. Il giorno successivo Dimitrov pose a Togliatti
e a Thorez il problema dello scioglimento del Comintern, ricevendone un
assenso convinto?. Subito dopo l’invasione dell’URSS Togliatti venne reintegrato
nel vertice dell’Internazionale e addetto alle trasmissioni radio per l’Italia?. Nei
suoi messaggi radiofonici egli cominciava a inserire riferimenti sempre più ampi
alla storia d’Italia per dare basi più solide alla nuova politica del partito. È un terreno sul quale egli si trovava a suo agio: su una reinterpretazione della storia d’Italia si era basato il nuovo orientamento del PCI nel ????-?? e Togliatti, che ad esso aveva contribuito, farà di quel nuovo inizio il tratto distintivo della “tradizione”
del partito?. Fra il ???? e il ???? egli aveva già avuto modo di studiare i manoscritti
dei Quaderni del carcere e ad essi attingerà costantemente?. Via via che il
movimento comunista si posizionava nella «guerra antifascista», prendeva corpo
la prospettiva delle «guerre di liberazione nazionale», già individuata nel rapporto
al VII Congresso dell’Internazionale come possibile risposta alla «guerra totale»
di Hitler?. Gli sviluppi della guerra fra il ???? e il ???? legittimavano un orienta-
mento strategico di cui Togliatti era convinto da tempo?. Ma furono soprattutto
la caduta del fascismo e la costituzione della Grande Alleanza a consentirgli di approfondire i temi della «guerra di liberazione in Italia» che lo persuasero a scommettere sulla tenuta della coalizione antifascista come nuova cornice delle relazioni internazionali, nella quale l’antifascismo avrebbe potuto essere un’opzione stabile del moimento comunista?. Con l’inizio della guerra fredda Stalin accantonò quella prospettiva e si tornò ai vecchi schemi. Ma la collocazione dell’Italia nella sfera di influenza occidentale consentiva a Togliatti di non rinunciarvi e questo si riverberò anche sugli sviluppi della sua riconsiderazione della storia d’Italia.
Rispetto alla definizione molto densa che ne avevano dato le Tesi di Lione, la seconda guerra mondiale diede il via a innovazioni significative. Le più rilevanti si
collocano nel periodo della guerra di liberazione e della nascita della Repubblica.
Ciò non può sorprendere, poiché in quegli anni mutarono il ruolo del comunismo
nella politica mondiale, quello della classe operaia e del PCI nella politica italiana.

La politica estera dell’Italia. Linee di mutamento della cultura politica del PCI
Si può fissare come punto di partenza il momento in cui le principali innovazioni
della politica di Togliatti, la democrazia progressiva e il partito nuovo, sono ormai
delineate, il PCI si accinge a entrare nel governo Badoglio e la “politica di unità nazionale” è garantita dalla Grande Alleanza. Nel rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana (?? aprile ????) sono presenti riferimenti significativi alla storia della politica estera italiana, miranti a «giustificare» la politica estera futura?. Ma la sede in cui i riferimenti alla storia d’Italia sono sviluppati con maggiore ampiezza è il rapporto al V Congresso del partito (?? dicembre ????). In esso la storia d’Italia dalla Rivoluzione francese in poi è ricapitolata nelle sue linee
essenziali e il metodo storico è posto a fondamento di una politica nazionale:
Quando ora guardiamo il punto cui siamo arrivati non possiamo staccare gli occhi da tutto questo passato. Scusate dunque – egli dice rivolgendosi ai delegati – questo richiamo alla nostra storia. Credo sia necessario, anche perché il nostro partito non potrà adempiere bene alla propria funzione nazionale se i nostri quadri dirigenti non saranno bene orientati su tutti i problemi della vita della nazione e la radice di questi problemi sta nel passato?.
La nuova strategia del PCI presuppone uno sviluppo e un’articolazione dell’interpretazione della storia d’Italia condensata nelle Tesi di Lione. Non sorprende che essi si focalizzino innanzitutto sulla storia della politica estera: il PCI è legato a una delle potenze vincitrici che decideranno insieme il futuro dell’Italia, fa parte del governo e Togliatti mira a riplasmarlo come “partito di governo”. Nel periodo precedente non si può dire che il PCI avesse sviluppato una politica estera, né che avesse approfondito la storia della politica estera dell’Italia. Nelle Tesi di Lione i riferimenti al tema sono scarsi: il primo è al governo Crispi, iniziatore di una politica estera imperialistica;
il secondo riguarda il fascismo, il cui velleitario «espansionismo» era destinato
a fare dell’Italia «uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti
che si contendono il dominio del mondo»??. In questa scia, indicata da Gramsci, si
era mosso in seguito anche Togliatti, inserendo la politica estera del fascismo nella
«tradizione» della politica estera dell’Italia, denunciando il «revisionismo» fascista
come fomentatore di una nuova guerra europea, avvertendo che la sua prospettiva
andava in rotta di collisione con il nazismo poiché gli interessi geostrategici dell’Italia nell’area danubiana e balcanica cozzavano con quelli della Germania e infine ravvisando nell’asse con la Germania hitleriana la scelta più sciagurata che l’Italia potesse fare poiché si consegnava nelle mani dell’imperialismo peggiore??.
Pur nella sua scarna essenzialità, questa interpretazione aveva favorito la politica
del PCI dopo l’entrata in guerra dell’Italia e, via via che i rovesci militari provocavano la crisi del fascismo, aveva permesso a Togliatti di individuare nello sganciamento dalla Germania un obiettivo efficace, capace di intercettare dinamiche che interessavano la monarchia, il Vaticano e parti significative della borghesia, cogliendo le linee di frattura del “blocco storico” del fascismo??. Ancor più importante, alla caduta del fascismo gli aveva consentito di elaborare quella politica che, dopo il riconoscimento sovietico del governo Badoglio, al rientro di Togliatti in Italia prese l’appellativo di “svolta di Salerno”. La documentazione resa disponibile dalla “rivoluzione degli archivi” ne mostra i condizionamenti e le oscillazioni fra dicembre ???? e marzo ??????. Ma non avremmo dovuto attendere le rivelazioni del Diario di Dimitrov per scoprire che essa era stata concordata con Stalin: l’aveva reso noto Togliatti stesso nel discorso celebrativo pronunciato alla Camera dei deputati il ? marzo ???? in occasione della morte del dittatore sovietico??.
L’interpretazione della storia d’Italia sintetizzata nelle Tesi di Lione era stata
fortemente influenzata dall’esigenza di inquadrare l’avvento del fascismo nella crisi
generale della società italiana originata dalla Grande Guerra e conteneva una critica
radicale del Risorgimento. Quella interpretazione veniva ora rivista in punti essenziali. Legittimato dall’indirizzo antifascista del comunismo internazionale, Togliatti si dedicò a sceverare le correnti progressive del liberalismo italiano per collegarvi la sua politica. Ma le conclusioni della seconda guerra mondiale determinarono revisioni ancora più ampie. Esse avviarono un mutamento dei paradigmi della cultura politica del PCI, di cui Togliatti fu l’interprete principale.

L’eredità di Cavour, di Mazzini e di Giolitti
Nel formulare la «politica di unità nazionale» egli appare estremamente avvertito
di quella che sarebbe stata la condizione dell’Italia alla fine della guerra. La
Conferenza di Casablanca (??-?? gennaio ????), che aveva deciso la «resa incondizionata » delle potenze dell’Asse, e quella di Quebec (??-?? agosto ????), che assegnava ai comandi militari alleati le decisioni politiche nei territori occupati,
accrescevano il rischio di una divisione del paese, occupato per due terzi dalle
armate naziste. L’armistizio e il riconoscimento dello status di paese cobelligerante,
ottenuti dal “Regno del Sud”, non bastavano a garantire all’Italia un trattamento
non del tutto umiliante al tavolo della conferenza di pace. Per conquistare
una condizione meno svantaggiosa, l’Italia, pensava Togliatti, avrebbe dovuto
partire dal riconoscimento della sua situazione e delle sue responsabilità:
era un paese vinto, corresponsabile dello scatenamento della guerra, aggressore
della Francia, della Grecia, della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica. L’unica possibilità di migliorare la propria condizione consisteva quindi nello sviluppo della
guerra di liberazione e nel contributo che essa avrebbe potuto dare alle potenze
alleate accelerando la sconfitta di Hitler. Tutto ciò comportava la rinuncia,
in futuro, alle ambizioni coloniali perseguite dall’Italia da Crispi a Mussolini. La
consapevolezza che dalla guerra sarebbe scaturita una dimensione del tutto nuova
delle “grandi potenze” rendeva evidente che l’Italia non avrebbe potuto più
ambire a essere una di loro. Avrebbe dovuto battersi, invece, per un nuovo assetto
europeo, basato sull’indipendenza nazionale e la cooperazione internazionale
fra tutti i popoli. La permanenza della coalizione antifascista avrebbe garantito
la pace e l’equilibrio di una nuova “Europa delle nazioni”, amica anche
dell’URSS, assurta al rango di grande potenza mondiale. Ma soprattutto l’Italia
avrebbe dovuto svolgere un ruolo attivo per contrastare ogni rischio di rottura
della Grande Alleanza e battersi perché l’Europa non venisse divisa in blocchi
contrapposti. In essi Togliatti ravvisava il pericolo maggiore per il paese a causa
della sua arretratezza, della sua debole competitività e dell’essere un’economia
di trasformazione, per la quale era indispensabile la più ampia circolazione degli
scambi??. Questa visione era intrisa di una forte diffidenza verso l’ipotesi federalista che sarebbe durata per tutto il ventennio successivo. Lo «spazio europeo », per Togliatti, si estendeva dall’Atlantico agli Urali ed egli pensava che la
prospettiva «mai più guerra in Europa» potesse essere garantita solo dal permanere della collaborazione fra i paesi della Grande Alleanza. Vi era un’evidente sottovalutazione delle ragioni che in breve volgere di tempo ne determinarono la rottura e, quando questa si verificò, Togliatti puntò le sue carte sul suo superamento, mantenendo fino all’ultimo riserve fondamentali sull’integrazione europea.
Credo che la sua posizione fosse condizionata dai timori suscitati dalla
preponderanza strategica degli Stati Uniti e dall’adesione alla teoria dell’imperialismo, dalla quale derivavano una visione unilaterale dei pericoli di guerra e una sottovalutazione del dato più rilevante scaturito dalla seconda guerra mondiale: l’interdipendenza??. La sua concezione dell’indipendenza nazionale appare quindi anacronistica: nel mondo del dopoguerra la creazione di spazi economici e politici sovranazionali era un fatto ineluttabile e progressivo; le chances dell’Italia nella sfera di influenza in cui essa era collocata non potevano risiedere che nella capacità di coglierne il “nesso internazionale” virtuoso. È difficile dire quanto Togliatti credesse alla possibilità che la divisione del mondo originata dalla guerra fredda venisse superata in tempi politicamente utili. In ogni caso, la situazione e il “legame di ferro” con l’URSS non gli consentivano la possibilità di giocare un’altra carta; onde alla politica nazionale del PCI veniva a mancare l’elemento basilare di un “nesso internazionale” spendibile. Ma non è compito di questo scritto approfondire la politica estera di Togliatti. Per il periodo ????-?? essa è stata ricostruita in modo persuasivo da Roberto Gualtieri e da Silvio Pons, ai cui studi rinvio ??. Vorrei dedicare, invece, la mia attenzione al ripensamento della storia della politica estera italiana che la nuova collocazione del PCI sollecitava. Lo si può riassumere nella valorizzazione di quelle correnti della tradizione risorgimentale che avevano saputo conquistare e difendere l’indipendenza nazionale perseguendo una politica di equilibrio europeo ed erano state capaci di cogliere le opportunità derivanti anche dai contrasti fra le potenze europee, ma non in chiave sciovinistica, bensì per concorrere a una politica di sicurezza e di cooperazione internazionale.
In estrema sintesi, la tradizione riassunta nella formula «indipendenti sempre,
isolati mai». In occasione della Conferenza di Londra, per sostenere una soluzione
negoziata fra l’Italia e la Jugoslavia del problema della frontiera orientale
e della questione di Trieste, il ?? settembre ???? Togliatti scriveva:
Ritengo che una politica nazionale dell’Italia deve rimanere fedele all’idea direttrice che fu di Camillo Cavour, di Giuseppe Mazzini e persino di Giovanni Giolitti, secondo la quale il popolo italiano deve essere amico e stretto collaboratore dei popoli slavi dell’Adriatico??. Nel rapporto al V Congresso, contrastando la costituzione di blocchi contrapposti, affermava che, a qualunque di essi l’Italia avesse aderito, avrebbe avuto il ruolo del «vassallo di qualcuno», come già era accaduto «nei primi decenni della Triplice »??; e il ?? luglio ????, intervenendo all’Assemblea Costituente sulla formazione del secondo governo De Gasperi, ribadiva quella linea affermando: «Ciò che dico è del resto nella tradizione [...] che parte da Cavour, che continua con Visconti Venosta e con tutti i Ministri degli Esteri italiani che seppero fare una intelligente politica nazionale».
Il richiamo di questa tradizione era reiterato soprattutto per sostenere l’«interesse
» dell’Italia a che l’Unione Sovietica non venisse esclusa dal concerto europeo.
Nel rapporto al V Congresso, dopo aver ribadito che l’Italia doveva fare
una politica di amicizia anche con l’URSS non «per motivi ideologici», ma per
«motivi nazionali», ricordava che «dal Congresso di Vienna fino al ????-??» la
Russia era stata la potenza che più aveva favorito l’unità d’Italia. Certo, quell’atteggiamento era stato originato dal suo interesse a promuovere un nuovo equilibrio europeo nel Mediterraneo. Ma proprio per questo l’Italia del dopoguerra
avrebbe trovato nell’Unione Sovietica un valido appoggio al fine di evitare di divenire il vassallo «di un grande imperialismo straniero». Dunque, l’amicizia con
l’Unione Sovietica corrispondeva a un indirizzo di indipendenza nazionale ??.
Questa interpretazione culmina nel Discorso su Giolitti (?? aprile ????). Come è
noto, esso segna uno dei punti di maggiore innovazione di Togliatti rispetto alla
storiografia dominante e alla stessa visione gramsciana della storia d’Italia dall’unità al fascismo: Giolitti è sottratto alla tradizione «trasformistica» e presentato come un «riformista» sconfitto dal sopravvenire della «guerra imperialistica»??.
È molto significativa la sottolineatura del suo atteggiamento riluttante verso la
guerra di Libia: «Il pericolo che da quella scintilla potesse sorgere un incendio
più grande – scrive Togliatti – non è perduto di vista, ma non domina». Giolitti,
dunque, «grazie all’apporto diretto e indiretto della diplomazia zarista», si dispose
alla guerra come a «una questione da regolare» in fretta per «non avere più
quella pendenza» in un futuro prossimo che si annunciava turbolento e incontrollabile.
Così, concludeva Togliatti, veniva continuata «la tradizione piemontese,
che è tradizione di contatto e amicizia con la grande potenza orientale e ricerca
di appoggio di quella parte». In quella tradizione iscriverà alcuni anni dopo
anche Badoglio, sottolineando la fermezza con cui aveva saputo difendere, dopo
il «lungo armistizio», le ragioni della dignità e dell’indipendenza nazionale??.

Questione cattolica e questione vaticana prima e dopo il fascismo
Anche la questione vaticana, ovviamente, è legata alla politica estera. Ma nella sua
reimpostazione piuttosto che il richiamo di tradizioni utili, che non c’erano, prevalgono considerazioni derivanti dalla nuova collocazione del PCI come partito di
governo, dal ruolo di Togliatti nel comunismo internazionale e dalla percezione
dei mutamenti che cominciavano a interessare la Chiesa stessa.
Nelle Tesi di Lione la questione vaticana, insieme alla questione meridionale,
costituiva una specificazione della «questione contadina»??. Gramsci inquadrava
l’unità d’Italia nel «nesso storico europeo», nel quale il Vaticano era stato
Gentiloni e della condanna del Modernismo, ancora inconciliata con il liberalismo
e la democrazia??. Tuttavia, affinatasi nelle prove della Grande Guerra e dell’avvento del fascismo, la riflessione di Gramsci era stata attirata sia dalla nascita del Partito popolare, sia dal suo precoce sacrificio al fascismo, diversamente da quanto avveniva oltralpe nei rapporti fra il Vaticano e l’Action française??.
Nel ???? Togliatti aveva dedicato uno scritto importante alla Fine della “questione
romana”, nel quale concludeva che la Chiesa, al pari di «tutti gli strati della
borghesia italiana», «era irresistibilmente tratta ad unirsi al fascismo» per difendere
la società capitalistica. Tuttavia, egli non negava che il Concordato fosse
uno strumento valido, in via di principio, per superare l’opposizione vaticana
allo Stato unitario; né mancava di avvertire che la collaborazione con il fascismo
avrebbe potuto essere «scontata dalla Chiesa con una ribellione di masse
» di tipo ereticale e scismatico. Infine, presagiva che «nel campo internazionale
» il fascismo non ne avrebbe tratto vantaggi «esageratamente grandi, né di
lunga durata», perché la Chiesa si sarebbe ben guardata «dal perdere quel carattere di universalità che è la migliore garanzia della sua funzione controrivoluzionaria nel mondo intiero». Sebbene, incalzata dalla modernità, fosse obbligata a rimodulare il suo ruolo e i suoi obiettivi, «per la sua stessa struttura organica, per tutte le posizioni ideali che essa difende e per lo scopo ultimo cui mira tutta la sua attività», proseguiva Togliatti, la Chiesa restava «la potenza più
“antidemocratica” del mondo»??. Quando egli rientrò in Italia il mondo era cambiato. Il Vaticano aveva avuto un ruolo attivo nella caduta di Mussolini e nell’indurre il governo Badoglio all’armistizio ??; nel radiomessaggio del Natale ???? Pio XII aveva iniziato il riorientamento della Chiesa verso la democrazia ?? e il Vaticano era schierato con la Grande Alleanza antifascista. Stalin aveva interrotto le persecuzioni religiose, realizzato una solida alleanza con la Chiesa ortodossa (risorsa essenziale della guerra patriottica) e manifestato la volontà di riconoscere la libertà religiosa??. Il ?? luglio ???? Togliatti incontrò riservatamente monsignor Montini, segretario di Stato provvisorio, e i loro contatti proseguirono almeno fino alla fine del gennaio ???? avendo a oggetto gli interessi della Chiesa sia in URSS e in paesi importanti nei quali essa si era insediata, come la Polonia, sia in Italia, dove il PCI appariva una garanzia per i futuri assetti democratici. In quel momento al Vaticano Togliatti interessava tanto come tramite con Mosca, quanto come leader politico che aveva evitato all’Italia la «prospettiva greca»??. Com’è noto, Togliatti avviò un dialogo di ampio respiro con il mondo cattolico, i cui cardini erano l’apertura del partito ai cittadini di qualunque confessione religiosa e la ricerca di un «patto di unità d’azione» anche con la DC, basato sul programma di governo dei partiti antifascisti ??. Questa strategia culminò nel rapporto al V Congresso, nel quale Togliatti riconosceva il valore dei Patti Lateranensi poiché avevano dato una «soluzione definitiva alla questione romana» e sul Concordato aggiungeva: «Questo è per noi uno strumento di carattere internazionale oltreché nazionale, e comprendiamo benissimo che non potrebbe essere riveduto se non per interesse bilaterale, salvo violazioni che portino una parte o l’altra a denunciarlo»??. Si trattava di una questione basilare per lo Stato italiano, sulla quale il PCI non avrebbe mutato avviso con il mutare della sua collocazione e quando la DC propose di inserire il Concordato nella Costituzione esso, unico fra i partiti di sinistra, votò l’art. ? per evitare – affermava Togliatti – gravi minacce alla pace religiosa. In seguito egli difese con forza quella scelta perché era coerente con la «politica di unità nazionale», perché la collaborazione fra le masse comuniste, socialiste e cattoliche era la base delle lotte per l’attuazione della Costituzione e perché dopo il ?? aprile ???? il Concordato aveva costituito persino un argine contro l’invadenza clericale nella vita della società e dello Stato??. È degno di nota che Togliatti informò preventivamente il Vaticano del voto favorevole all’art. ?, il che prova che i contatti proseguivano malgrado l’inizio della guerra fredda??.
Come dimostra anche il caso della ratifica del trattato di pace, che il PCI favorì
poco dopo con la sua astensione quando era ormai fuori dal governo??, i mutamenti intervenuti nella sua cultura politica erano profondi ed è difficile spiegarli senza risalire alla percezione delle novità originate dalla guerra e alle revisioni in tema di dottrina della guerra e concezione della democrazia a cui Togliatti aveva atteso nel ventennio precedente.
Fra le maggiori novità Togliatti, caso raro fra gli uomini politici del tempo,
percepì che l’invenzione della bomba atomica mutava il carattere della guerra??.
Pertanto riteneva che l’avvento dell’era atomica avrebbe inciso profondamente
anche sulla cultura, la collocazione e il ruolo della Chiesa nel mondo. Quindi, anche
negli anni più aspri della guerra fredda e della scomunica non rinunciò a proporre
un dialogo con le masse cattoliche in difesa della pace e nel ????, collegandosi
alla proposta sovietica di una conferenza europea per la sicurezza collettiva,
cercò di riaprire il dialogo anche con il Vaticano??. Infine, quando giunse la distensione, ebbe un ruolo attivo nella preparazione dell’incontro fra papa Giovanni
XXIII e il genero di Chru&cëv Alexei Adjubej, direttore dell’“Izvestija”, che
rappresentò il segnale più vistoso del dialogo avviatosi fra il Vaticano e Mosca??.
Ma forse ancora più importante è la percezione della portata storica del Concilio
Vaticano II, col quale, scrisse Togliatti, la Chiesa poneva fine all’«età costantiniana
» e cessava di essere il baluardo della società capitalistica??. Quelle analisi e
la persuasione sempre più convinta che il mutamento della natura della guerra
imponesse un mutamento della concezione della politica, originarono le innovazioni
più rilevanti della cultura politica del PCI: l’approdo a una valutazione positiva
del «fenomeno religioso»?? e l’idea della collaborazione fra credenti e non
credenti per prevenire i pericoli di una guerra e affrontare insieme le nuove sfide
globali in nome della «comune umanità»??.

Il fascismo come problema storico
Togliatti elevò l’antifascismo a «dottrina del rinnovamento della nazione italiana»,
il cui cardine era l’instaurazione di una «democrazia progressiva»??. Essa consisteva
in un regime parlamentare basato sul ruolo eminente dei partiti, la collaborazione
fra i partiti antifascisti al governo, una Costituzione «programmatica» che
sancisse l’economia mista, la possibilità di riforme di struttura e i diritti sociali di
un Welfare avanzato??. Come si vede, sono indirizzi del tutto analoghi a quelli sui
quali si basò la ricostruzione negli altri paesi dell’Europa occidentale. Contro l’ipotesi di un sistema rappresentativo basato sui CLN Togliatti optò per il modello
parlamentare e in seguito anche per questo sottolineò che la «democrazia progressiva » era cosa diversa dalla «democrazia popolare» instaurata nei paesi dell’Europa centrale e orientale??. In Italia si poneva il problema di «estirpare le radici» non di un fascismo possibile, ma di un «fenomeno politico» storicamente sperimentato: un regime durato più di vent’anni, che aveva portato il paese alla catastrofe. La “giustificazione storica” della politica di unità nazionale poggiava quindi sull’analisi del fascismo. Rispetto agli sviluppi che Togliatti le aveva dato negli anni Venti e Trenta??, l’accento cadeva ora sulle origini, piuttosto che sul “regime”, e tendeva a sottolinearne la funzione conservatrice sfocando l’attenzione sui suoi aspetti di modernità.
Se ne capisce il perché: la modernizzazione dell’Italia prevista dal “programma
dell’antifascismo” era antitetica alle modernizzazioni del fascismo: prevedeva
la liquidazione del regime di bassi salari e di bassi consumi che costituiva il
tratto distintivo del capitalismo italiano?? e il ribaltamento del «regime autoritario
di massa»?? in una democrazia intensamente partecipata, basata sulla mobilitazione sociale e sui partiti di massa. Nel ribadire, quindi, il concetto basilare delle Tesi di Lione, cioè che per spiegare «nascita e avvento» del fascismo si doveva «risalire alla struttura stessa della società e dello Stato italiano», Togliatti spingeva lo sguardo molto più indietro del Risorgimento: sulla scia dei Quaderni del carcere, riandava ai limiti economico-corporativi del protocapitalismo italiano, ricordava la crisi del Seicento, sottolineava come l’Italia fosse rimasta quasi del tutto estranea al secolo dei Lumi e nell’Ottocento fosse stata un «paese arrivato alla restaurazione senza avere avuto una vera e propria rivoluzione». L’unificazione nazionale si era basata su un «blocco industriale-agrario» nel quale l’elemento industriale era debole, ristretto e permanentemente condizionato da un elemento agrario semifeudale??. Ancor più degno di nota, però, è che a questa storia Togliatti facesse risalire un carattere originario dell’«intelligenza italiana», alla quale attribuiva un ruolo decisivo nel fatto che, nei momenti topici di crisi e di svolta del fascismo, l’intera nazione avesse fatto blocco con esso??. Anche questo filone di ricerca derivava dai Quaderni e originava un’innovazione significativa nell’analisi togliattiana del fascismo poiché ne ampliava la ricognizione dei rapporti con la cultura italiana e nell’agenda politica comportava un’attenzione particolare alla «quistione politica degli intellettuali ». Il tema è di grande rilievo poiché segnala un aspetto del «partito nuovo», al quale finora gli studi non hanno dato adeguata attenzione. L’obiettivo di Togliatti non era solo quello di creare un partito comunista di massa, ma anche di mutare, attraverso la sua azione, i rapporti fra gli intellettuali e il popolo-nazione. La “politica culturale” ha una densità e un tratto specifico nella visone togliattiana del partito poiché ne delimita le capacità di direzione politica: non si può assolvere una “funzione nazionale” senza avere una grande influenza sulla cultura del paese.
Ma non possiamo approfondire qui questo problema. Tornando ai temi di
questo paragrafo, Togliatti pose al centro delle sue analisi la crisi della cultura italiana fra Ottocento e Novecento e su di essa tornò ripetutamente fino alla fine dei suoi giorni. Quanto al fascismo, se, nella riflessione postbellica, la ricchezza delle analisi del «regime reazionario di massa» appare affievolita, tuttavia essa ispirò la politica di «pacificazione nazionale» di Togliatti ??. Inoltre, essa era palesemente sullo sfondo dell’autocritica che egli pronunciò nel ???? per non aver saputo accostare le nuove generazioni fasciste e recepirne i fermenti ideali e le nuove sensibilità, con grave danno per la capacità dei comunisti di lottare contro il
fascismo prima e per la costruzione del «partito nuovo» dopo la sua caduta??. Il
tema del consenso al fascismo fu posto invece come problema cruciale della ricerca
storica negli ultimi anni della sua vita, in una stagione della politica italiana
profondamente mutata, nella quale Togliatti, come diremo, non pensava più
all’unità antifascista come prospettiva di governo ??. Palesemente insoddisfatto
per lo stato degli studi, egli promosse attraverso l’Istituto Gramsci un convegno
storico sul fascismo di notevoli ambizioni, impegnandosi a svolgere lui stesso una
relazione dedicata all’analisi e al dibattito del Comintern sul fascismo; ma il convegno non si poté realizzare perché egli non riuscì a preparare la sua relazione??.

La crisi della cultura italiana fra Ottocento e Novecento
Com’è noto, la principale risorsa intellettuale della politica culturale di Togliatti fu
la pubblicazione degli scritti di Antonio Gramsci. Ad essa egli affiancò un’opera
costante di lettura e interpretazione condizionata dall’evolvere della lotta politica
in Italia e dalle vicende del comunismo internazionale??. Il pensiero di Gramsci agì
come chiave di lettura della crisi della cultura italiana fra Ottocento e Novecento,
e al tempo stesso come reagente della sua risoluzione. La «questione» degli intellettuali aveva un rilievo così grande nella politica di Togliatti poiché egli condivideva il pensiero di Gramsci che, fin dagli anni Venti, «riconosceva» in loro «il tessuto connettivo della società italiana attraverso i secoli»??. Essi dunque avevano
avuto e continuavano ad avere un ruolo determinante nell’unificazione della nazione e nella vita dello Stato. L’interpretazione della crisi culturale che aveva favorito l’avvento del fascismo venne proposta in modo definitivo nel discorso dedicato a Gramsci Pensatore e uomo d’azione il ?? aprile ???? nell’aula magna dell’Università di Torino. Se le correnti ideali prevalenti nella prima metà dell’Ottocento avevano fatto lega con «i principi, la chiesa e i proprietari feudali» per «limitare le ripercussioni in Italia della Rivoluzione francese»??, la cultura positivistica che aveva preso il sopravvento dopo l’unità aveva avuto una funzione benefica fornendo l’humus al primo socialismo italiano, ma al tempo stesso ne aveva segnato la debolezza: l’evoluzionismo, il fatalismo e l’incapacità di elaborare una propria visione della storia d’Italia e una concezione soggettivistica della politica e della storia.
Il socialismo italiano aveva avuto un ruolo decisivo nel promuovere l’unità della
nazione e la cultura positivistica era stata un tramite essenziale fra intellettuali e popolo.
Ma il movimento socialista non aveva avuto pensatori di rilievo e Antonio
Labriola, il suo unico intellettuale europeo, ne era rimasto ai margini come una figura isolata. Onde il socialismo non era riuscito a elaborare un programma di rinnovamento e di riforma della nazione italiana. La rinascita idealistica aveva avuto un ruolo progressivo nel provocare la dissoluzione del positivismo: aveva promosso una visione “energica”, laica e immanentistica della realtà e della storia. Ma il suo obiettivo principale era stato quello di sbarrare la strada al marxismo, espungendo Labriola dal movimento del pensiero italiano del secondo Ottocento come un corpo estraneo. Perciò la crisi del positivismo aveva creato un vuoto nei rapporti fra gli intellettuali e le masse popolari, nel quale avevano fatto irruzione le
correnti più congeniali al nazionalismo e al nascente imperialismo italiano: vitalismo, irrazionalismo, filosofie dell’azione. Così era stata incapsulata e travolta anche quella scuola “economico-giuridica” che aveva dato vita a un indirizzo di studi storici e sociali molto promettenti, ai quali aveva attinto il giovane Gramsci. Nel complesso la riforma dell’hegelismo di fine Ottocento aveva avuto dunque un segno di conservazione e di reazione; e se dinanzi ai suoi sviluppi estremi e indesiderati Croce si era tirato indietro cercando di farvi argine, durante il fascismo la sua voce autorevole non aveva costituito molto più che una testimonianza. Col fascismo, invece, aveva fatto lega Gentile, condividendone fino all’ultimo il destino.
Alla caduta del fascismo Croce e Gentile si stagliavano ancora come le figure
dominanti della cultura italiana e della sua crisi. I Quaderni del carcere prefiguravano quindi una riforma dei suoi indirizzi che – secondo quanto Gramsci
stesso aveva scritto – doveva costituire sia un «anti-Croce», sia un «anti-Gentile
». Si trattava di rifare con l’idealismo italiano l’operazione che Marx aveva fatto
con la filosofia di Hegel. Essa non poteva prendere le mosse da Croce e da Gentile, ma dalle correnti del liberalismo rivoluzionario del Risorgimento; quindi, da De Sanctis e da Spaventa.
Già nella conferenza pisana del ???? Togliatti aveva indicato in Bertrando
Spaventa «il più grande filosofo [italiano] del secolo passato» e nel suo scritto
sulle prime categorie della logica di Hegel l’appiglio di una riforma della dialettica
hegeliana, che aprisse la strada alla filosofia della praxis??. Ma una genealogia
del marxismo in Italia non era stata ancora tentata e Togliatti vi si applicò egli
stesso nel saggio dedicato ad Antonio Labriola nel ??????. In esso sottolineava
l’ambivalenza della filosofia di Spaventa, aperta a uno sviluppo in direzione sia
dell’attualismo, sia della filosofia della praxis, ma considerava coerente con l’indirizzo del suo pensiero solo quest’ultima e ad essa collegava il cammino percorso da Labriola, mentre considerava la riforma attualistica un travisamento. Ma in questa sede conta di più sottolineare che in quel saggio Togliatti rendeva esplicito il debito del suo programma di ricerca con il modo in cui Spaventa aveva impostato il tema della «circolazione europea della filosofia italiana del Rinascimento ». Bertrando Spaventa aveva elaborato il suo programma scientifico per fare della penetrazione di Hegel la base di un’egemonia culturale che cementasse l’unità della nazione ??, ma dinanzi alla prospettiva della filosofia della praxis si era arrestato. L’importanza di Labriola nella cultura italiana del secondo Ottocento stava quindi nel fatto che con lui quel passaggio era avvenuto e, con lo sviluppo che Gramsci aveva dato al marxismo, erano poste le basi di una nuova egemonia, promotrice di una unità della nazione diversa e più piena: un’egemonia
culturale che mirava a mettere fine alla frattura fra intellettuali e popolo??.
Il rinnovamento e l’apertura della cultura italiana alla cultura internazionale
seguirono vie diverse da quelle auspicate da Togliatti. Negli ultimi anni della sua
vita, quindi, egli pensò a un nuovo progetto, che esordisse dall’elaborazione teorica
e dalla generalizzazione dell’esperienza ormai quarantennale del PCI??. Ma il movimento comunista internazionale era ormai in crisi e Togliatti lo percepiva acutamente ??. D’altronde, a chi si sarebbe potuto affidare un compito di tanta mole?

Un capitalismo di bassi salari e bassi consumi
Col passare del tempo la «politica di unità nazionale», la Resistenza e la guerra di
liberazione divennero oggetto di riflessione storica e da esse Togliatti partì nel formulare i suoi giudizi sui primi due decenni della democrazia repubblicana. Alla
“politica di Salerno” egli attribuiva il merito della rinascita del paese: non solo per-
ché aveva evitato la “prospettiva greca”, ma anche perché, con l’ingresso dei partiti
antifascisti, il governo Badoglio aveva unificato l’“Italia libera” e il Nord partigiano,
ponendo le basi per un rapido sviluppo della Resistenza e l’esito vittorioso
della guerra di liberazione. L’accantonamento della questione istituzionale era
stata la premessa essenziale e l’aver posto la sua decisione nelle mani del popolo
aveva costituito sia l’atto di nascita della democrazia postfascista, sia la via più efficace per giungere all’eliminazione di casa Savoia. L’enfasi con cui Togliatti giudicava i risultati della politica di Salerno era giustificata da considerazioni che mi
sembra opportuno ricordare: quella politica era stata osteggiata, con intenti diversi,
sia dalle truppe di occupazione britanniche, sia da quelle americane; aver
raggiunto gli obiettivi prestabiliti era stato quindi un atto di recupero della dignità
e dell’indipendenza nazionale. Essa aveva consentito all’Italia di guadagnare un
trattamento diverso e migliore di quello che spettò alla Germania e al Giappone
alla fine della guerra. Inoltre, la «democrazia progressiva», recepita dalla Costituzione, aveva avviato la sperimentazione di una nuova via di avanzata al socialismo basata su una democrazia parlamentare: la prima tentata in Europa occidentale (anche perché l’Italia era uscita per prima dalla guerra) e l’unica adatta a paesi capitalistici sviluppati di tradizione parlamentare consolidata.
Per queste ragioni la guerra fredda e la fine dei governi di unità nazionale
non avevano interrotto il processo costituente e, grazie alla collaborazione fra comunisti, socialisti, azionisti e sinistra democristiana, era stato possibile inserire
nella Costituzione il programma di riforme economiche più avanzato d’Europa??.
Per contro, grazie anche alla pressione delle truppe di occupazione, il programma
riformatore della Resistenza era stato bloccato e la ricostruzione si era risolta
in una «restaurazione dell’economia italiana com’era sotto il fascismo».
Con tale giudizio Togliatti intendeva il ripristino del vecchio modello di sviluppo
fondato su bassi salari e bassi consumi. Fra il ???? e il ???? l’ispiratore della
politica economica di De Gasperi era stato Luigi Einaudi, fautore di un “liberismo
dottrinario”. Questo aveva condizionato anche il piano delle riforme successive:
una riforma agraria stentata, che lasciava in vita i vecchi patti agrari, e una
regolazione discrezionale dell’economia pubblica che, malgrado la sua crescita
impetuosa, ne ribadiva la funzione di puntello dell’accumulazione monopolistica
privata e apriva la strada a un dilagante sistema di corruzione.
L’Italia del primo decennio repubblicano era dunque il risultato d’una combinazione
contraddittoria fra la continuità delle strutture economiche, rafforzata
dalla continuità burocratica dello Stato centralistico, e la discontinuità del sistema
politico, caratterizzato invece dallo sviluppo dei partiti di massa e dell’azione
sindacale (le riforme avviate da De Gasperi nel ???? erano considerate una
risposta al piano del lavoro della CGIL e alla mobilitazione sociale promossa dalle
sinistre), sorretti dal radicamento dell’antifascismo fra strati sempre più ampi
delle masse popolari.
In questa visione s’inquadrava il giudizio sull’azione politica di De Gasperi.
Della “restaurazione capitalistica” egli non era stato certo il solo responsabile.
Tuttavia, Togliatti gli attribuiva la colpa di aver plasmato la DC come «partito
di fiducia della borghesia» e di aver subito i condizionamenti della Chiesa pa-
celliana e della destra cattolica (comitati civici, “operazione Sturzo”). Infine, gli
addossava la responsabilità di aver reintrodotto, con l’anticomunismo, col «processo alla Resistenza» e con la repressione dei conflitti sociali, i metodi di governo tradizionali della borghesia italiana. Onde il paese era oppresso da una
perdurante offensiva clericale e dal prevalere di umori reazionari nello spirito
pubblico. Chiave di volta del suo sistema di governo era l’unità politica dei cattolici,
decisa dal Vaticano ma fortemente voluta anche da De Gasperi poiché il consenso
della DC era condizionato dal sostegno delle gerarchie ecclesiastiche. Ma
in un paese caratterizzato da una forte polarizzazione sociale tanto sui temi della
politica economica, quanto su quelli della politica internazionale, si generavano
tensioni e fratture fra l’indirizzo politico dei governi centristi e le masse popolari:
il “blocco” del ?? aprile si incrinava e De Gasperi tentò di mantenere «il
monopolio politico della DC» con la legge maggioritaria del ????. Essa assegnava
un premio di maggioranza così ampio che, in caso di vittoria, la DC avrebbe
potuto cambiare la Costituzione unilateralmente. Togliatti ricorda che De Gasperi
non volle accogliere proposte di negoziato sulla misura del premio di maggioranza
lasciando così alle opposizioni l’opportunità di allargare le alleanze su
un terreno a loro favorevole. Fu un errore fatale che portò alla sconfitta della
“legge truffa” e alla fine politica del leader democristiano. Insomma, egli scrive,
sebbene saldamente antifascista, De Gasperi aveva nello spirito e nella cultura i
tratti del «notabile reazionario» e questo ne faceva il fautore di una democrazia
ben più ristretta di quella disegnata nella Costituzione. Quest’ultima era rimasta
«inapplicata» mentre De Gasperi aveva operato per realizzare una «democrazia
protetta», costretta nel letto di Procuste della «strategia della dipendenza
»?? sia dagli Stati Uniti d’America che dal Vaticano. Il giudizio di Togliatti sull’opera
politica di De Gasperi non appare certo «equanime», come il titolo del
saggio che gli dedicò nel primo anniversario della morte prometteva; ma non è
questa la sede per sottoporre a critica storiografica le sue valutazioni. Gli si può
riconoscere comunque il merito di aver interpretato la politica di De Gasperi alla
luce dei problemi della storia d’Italia, senza enfatizzarne troppo il condizionamento
internazionale??.

Le classi popolari dal Risorgimento alla Repubblica
Togliatti percepì per tempo la crisi del centrismo e favorì la politica di movimento
di Nenni in vista dell’“apertura a sinistra”??. Non si può dire, invece, che fosse
avvertito di quanto avveniva nell’economia italiana, che sfociò nel “secondo miracolo economico” del ????-??. Il PCI dovette aggiornare in fretta la sua analisi e
ne tirò le conclusioni agli inizi del centro-sinistra. Il mutamento era stato impo-
riconobbe che stavano cambiando alcuni caratteri originari dell’economia italiana:
È la prima volta nella storia del nostro paese, in tutta la storia della borghesia italiana, che essa è riuscita a raggiungere livelli di competitività internazionale e può quindi presentarsi nell’arena della concorrenza internazionale con posizioni, se non sempre di vantaggio, perlomeno di parità con le altre borghesie di struttura storicamente più forte??.
Partendo da qui il PCI procedette a un rinnovamento programmatico il cui cardine
era – come già nel ????-?? – un’economia di alti salari e alti consumi. Ma, a
differenza di quindici anni prima, l’obiettivo sembrava più realistico. L’Italia era
avviata verso la piena occupazione. La “programmazione democratica”, l’industrializzazione del Mezzogiorno, la riforma dei patti agrari, la riforma urbanistica, fiscale, della scuola e dell’università, la realizzazione dell’ordinamento regionale e di un Welfare moderno costituivano i punti di un programma condiviso da un arco di forze molto ampio. Esso comprendeva tutto il movimento sindacale, i
comunisti, i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani e la sinistra cattolica.
Con i due convegni di San Pellegrino e il congresso di Napoli (????, segretario
Aldo Moro), quel programma venne assunto anche dalla DC e posto a base
dell’«esperimento di centro-sinistra»??.
Nascendo sul presupposto della «delimitazione della maggioranza a sinistra
», secondo Togliatti la nuova formula politica poteva risolversi in una «manovra
trasformistica» oppure «essere l’inizio di un rinnovamento» destinato a
sfociare in «una svolta a sinistra della politica nazionale»: molto dipendeva dall’iniziativa del PCI e ancor di più dall’azione delle masse popolari che condividevano il programma del centro-sinistra??. Sul piano parlamentare il PCI decise quindi di esercitare un’opposizione «di tipo particolare»: la nazionalizzazione
dell’energia elettrica venne approvata con il suo voto determinante ??. Nella mobilitazione di massa esso faceva leva sulle rivendicazioni operaie, che ormai andavano oltre il salario e si estendevano all’organizzazione del lavoro, al potere
sindacale in fabbrica e alle riforme sociali. Nell’iniziativa politica Togliatti mirò
a rafforzare l’unità tra le forze che condividevano il programma riformatore
enunciando con chiarezza i suoi obiettivi: innanzitutto, egli affermava, quel
complesso di forze era lo stesso che con la sua unità aveva consentito di elaborare
la parte più avanzata della Costituzione riguardante la programmazione
economica e i diritti sociali; in secondo luogo, ci si poteva rifare al precedente
storico significativo che quella unità non era venuta meno ma aveva continuato
a operare anche dopo che le sinistre erano state estromesse dal governo, fino al
????. Ad ogni modo, ora il PCI non mirava più alla formazione di governi di unità
antifascista, poiché non si trattava di «distruggere le radici del fascismo», ma di
realizzare riforme di struttura di un capitalismo ormai avanzato, maturo per l’introduzione di «elementi di socialismo». Non era pensabile, quindi, realizzare
quel programma senza scalzare «il monopolio politico della DC»: vale a dire determinando un mutamento di equilibri politici e sociali così ampio e profondo
da mettere in crisi l’unità politica dei cattolici ??.
Questa prospettiva si basava su una visione dei primi due decenni dell’Italia
repubblicana, secondo la quale nel ????-?? il moto riformatore avviato dalla Resistenza era stato interrotto, ma non vinto, grazie soprattutto al PCI che nel quindicennio successivo aveva diretto l’azione delle classi popolari in modo tale che
non smarrissero la funzione nazionale e la capacità di iniziativa sui temi essenziali
dello sviluppo democratico del paese, conquistate nella Resistenza e nella fase costituente della Repubblica: Sono venti anni – scriveva Togliatti nell’editoriale del primo numero di “Rinascita” settimanale – che si combatte, in Italia. Vent’anni che due forze avverse, l’una di progresso e rivoluzione, l’altra di conservazione e reazione, si affrontano e misurano in un conflitto che ha avuto le più diverse fasi, nessuna delle quali, però, si è conclusa in modo tale che potesse significare il sopravvento definitivo dell’uno o dell’altro dei contendenti [...]. Il gigante
dell’energia popolare non ha potuto essere messo a terra [perché le classi popolari] sono diventate, in un momento decisivo della storia nazionale e della vita dello Stato italiano, protagoniste di questa vita e di questa storia. Sono le classi popolari che hanno fondato lo Stato italiano odierno. Esse e non il vecchio ceto dirigente e privilegiato, hanno organizzato e diretto la Resistenza, la guerra di liberazione, la conquista di un regime di democrazia e di progresso. Da questo dato di fatto parte e sopra esso si fonda tutta la situazione del nostro paese. Ed è un dato che non muta, che conserva tutto il suo valore, nonostante
le trasformazioni profonde che la situazione subisce??.
Retrospettivamente, queste valutazioni presupponevano un raffronto fra la Resistenza e il Risorgimento, al quale Togliatti applicava la categoria gramsciana di
«rivoluzione passiva». L’occasione gli era stata fornita dalla conferenza tenuta a
Torino, in un ciclo di lezioni intitolato Il Risorgimento e noi. Nella sua conferenza,
dal titolo Le classi popolari nel Risorgimento, Togliatti svolse un’ampia argomentazione contro la tesi storiografica di Rosario Romeo che attribuiva a Gramsci l’interpretazione del Risorgimento come «rivoluzione agraria mancata»??. Il
discorso di Togliatti si concludeva accogliendo il parallelo fra il Risorgimento e
la Resistenza, ma, a proposito della definizione di questa come «secondo Risorgimento», puntualizzava che, più che una reiterazione, la Resistenza aveva rappresentato una «correzione» del Risorgimento poiché con essa, per la prima volta nella storia d’Italia, le classi popolari avevano assunto un ruolo predominante
nella fondazione e nella vita del nuovo Stato.
I temi affrontati dal centro-sinistra interessavano tutte le forze politiche rappresentative del movimento operaio e avrebbero dovuto vedere la loro partecipazione solidale al governo del paese. Nel IX e X Congresso del partito Togliatti riprendeva, perciò, sia pure con molta cautela, il tema del «partito unico» fra comunisti e socialisti, che aveva costituito oggetto di una relazione specifica di Longo al V Congresso. Il tema era ripreso anche come antidoto a una possibile rottura totale dei rapporti unitari fra comunisti e socialisti (nel sindacato, nei “comuni rossi”, nella Lega delle cooperative) e contraltare alle pressioni del PSDI, dei repubblicani e della DC che ne sollecitavano la «deriva centrista». Esso aveva dunque una funzione eminentemente tattica poiché il progetto del partito unico, se
fosse stato realizzato, avrebbe significato prima o poi l’assorbimento del PCI in un
partito socialdemocratico ed è dubbio che Togliatti ritenesse questa prospettiva
auspicabile o soltanto possibile. Ad ogni modo, va annotato che il tema non venne
ignorato.
Inoltre, riprendeva il confronto fra comunismo e riformismo insistendo, come
nel ????-????, sul concetto che il nodo della discussione non riguardava il gradualismo o la via parlamentare, metodo e prospettiva condivisi da entrambi, bensì la concatenazione delle riforme “parziali” in un unico disegno e in un unico
processo di riforme della società e dello Stato??. Spingendosi ancora più innanzi
nel confronto, egli quindi esplicitava i presupposti riformistici della «via italiana
al socialismo»; e nel rapporto al X Congresso chiariva che la prospettiva prescelta
dal PCI era quella del socialismo processo: È evidente che nell’accettare questa prospettiva, che è quella dell’avanzata verso il socialismo nella democrazia e nella pace, noi introduciamo il concetto di uno sviluppo graduale, nel quale è assai difficile dire quando, precisamente, abbia luogo il mutamento di qualità ??.
Ovviamente un’evoluzione riformistica del quadro politico ed economico italiano
non dipendeva solo dal PCI, ma soprattutto dalla disponibilità delle classi
dirigenti a riconoscere la legittimità del movimento operaio come forza di governo,
e questa possibilità, che nella storia d’Italia non si era mai data, non veniva
presa in considerazione neppure allora. Com’è noto, prendendo a pretesto
una non grave inversione del ciclo economico internazionale, agli inizi del ????
il ministro del Tesoro e la Banca d’Italia misero l’alt al programma riformatore
del centro-sinistra, condannando la formula politica al fallimento. Il modello di
sviluppo fondato sui bassi salari e i bassi consumi doveva essere preservato; i caratteri originari del capitalismo italiano non ammettevano “riforme di struttura”.
L’ultimo editoriale di “Rinascita” conclude, quindi, la riflessione di Togliatti
sulla storia d’Italia proprio su questo nodo, lasciando aperti interrogativi di fondo
quanto mai dilemmatici: In quale misura i gruppi dirigenti della grande borghesia italiana, industriale e agraria sono disposti ad accogliere anche solo un complesso di modeste misure di riformismo borghese?
In quale misura, cioè, è possibile, in Italia, un riformismo borghese? Invitiamo gli
studiosi di storia e di economia ad approfondire questa questione, che è di decisiva importanza non tanto per giudicare il passato quanto per tracciare le linee di una prospettiva.
La questione è strettamente collegata a quella delle sorti di un partito socialdemocratico, che in Italia non è mai riuscito ad avere la stessa parte che in altri paesi europei, e degli altri partiti di lavoratori.

 
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